Il soldato dimenticato I
18 luglio, 1942. Arrivo alla caserma di Chemnitz, un vasto palazzo ovale, interamente bianco. Sono molto impressionato, con un misto di ammirazione e paura. Alla mia richiesta, sono assegnato alla 26° sezione dello squadrone comandato dal comandante di volo Rudel. Sfortunatamente, non riesco a passare i test della Luftwaffe, ma quei pochi momenti a bordo dello JU87 rimarranno con me come una gloriosa memoria. Viviamo con un’intensità che non ho mai avuto modo di sperimentare prima. Ogni giorno porta qualche novità. Ho un’uniforme di nuovo tipo, che mi calza perfettamente, e un paio di stivali, non nuovi ma in condizioni perfette. Sono molto orgoglioso del mio aspetto. Il cibo è buono. Imparo delle canzoni militari, che canticchio con un terribile accento francese. Gli altri soldati ridono. Sono destinati a essere i miei primi compagni in questo posto. L’addestramento basico nella fanteria, dove mi hanno mandato successivamente, è meno divertente di quello della vita di un aviatore. Il corso di combattimento è la sfida fisica più dura che abbia mai provato. Sono esausto, e diverse volte mi addormento sul mio cibo. Ma mi sento a meraviglia, pieno di un senso di gioia che non posso capire dopo così tanta paura e apprensione.
Il 15 settembre, lasciamo Chemnitz, e marciamo per 25 miglia verso Dresda, dove prendiamo un treno per l’est. Attraversiamo una grossa parte della Polonia, fermandoci diverse ore a Varsavia. Il nostro distaccamento va a fare un giro turistico per la città, incluso il famoso ghetto, o piuttosto, cosa ne è rimasto. Torniamo alla stazione in piccoli gruppi. Sorridiamo tutti. I polacchi ricambiano i sorrisi, specialmente le ragazze. Alcuni dei soldati più vecchi, più intraprendenti di me, hanno deciso di ritornare in compagnia più gradevole. Ancora una volta ripartiamo, per arrivare finalmente a Bialystok. Da Bialystok marciamo altro dieci miglia verso un piccolo villaggio. Il tempo è freddo ma incredibilmente bello. L’autunno è già arrivato in questa campagna collinosa e leggiadra. Camminiamo attraverso una foresta di enormi alberi. Il sergente Laus ci ordina ad alta voce di metterci in riga, e marciamo a passo veloce fino ad arrivare in una radura, dove un castello da racconti delle favole si erge di fronte a noi. Procediamo lunga un viale di alberi cantando a quattro voci “Erika, noi ti amiamo”. Ci imbattiamo in un gruppo di dieci o undici soldati, uno dei quali porta le scintillanti spalline di un ufficiale. Perfettamente a tempo, ci uniamo a questo gruppo appena cantiamo le ultime note della nostra canzone. Il sergente grida un’altra volta, e ci fermiamo. Poi un altro ordine, un’impeccabile cambio di fronte, e l’aria riecheggia al suono di trecento paia di stivali battuti insieme.
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