Il soldato dimenticato V
La nostra recluta tedesca continua l’addestramento….Fra i canti, do un’occhiata ai miei compagni spompati, e noto uno sguardo di ansietà su ogni viso. Dato che non capisco, Peter Deleige, che è un passo in diagonale davanti a me, indica il suo polso, dove l’orologio brilla nell’oscurità e mormora: E’ l’ora.
Buon dio! Afferro. E’ quasi notte, sono le cinque passate e siamo in ritardo per la cena. L’intero drappello sembra reagire, e il nostro passo accellera. Forse ci hanno lasciato qualche cosa. Ci aggrappiamo a questa speranza, dominando la spossatezza che minaccia di sopraffarci. Distanziamo il sergente di un passo e poi di due. Ci fissa con stupore, inizia a gridare e si riprende: così voi pensate che possiate lasciarmi dietro, vero? Bene, andiamo dunque. Ai suoi ordini, cominciamo a cantare “Die Wolken zihen” per la settima volta, e , senza rallentare il passo, attraversiamo il ponte di pietra massiccia che sovrasta il fossato. Spuntiamo nel cortile ombroso, debolmente illuminato da poche fioche luci. Una colonna di soldati con le gavette per la cena e scatole di latta per bere sta facendo la fila di fronte a un sidecar che porta tre enormi pentoloni. All’ordine del sergente ci fermiamo, e aspettiamo per il successivo ordine per rompere i ranghi e prendere le nostre gavette. Ma, ahimè, quel momento ancora non è venuto. Questo sadico ci obbliga a rimettere i nostri fucili nella rastrelliera, secondo il proprio ordine numerico, e ci vogliono ancora dieci minuti. Siamo furibondi. Poi, improvvisamente: andate e vedete se è rimasto qualche cosa e in ordine!!!
Ci tratteniamo fino alla porta corazzata. Ma, poi, una volta fuori, nulla può fermarci. Ci lanciamo selvaggemente verso i nostri alloggi. I nostri stivali chiodati fanno scintille quando cozzano contro il pavimento del cortile. Corriamo fino alle monumentali scale di pietra come ottanta pazzi, spostando i pochi soldati che stanno tentando di tornare giu. Nei dormitori la calca aumenta, dato che nessuna è completamente sicuro di quale stanza e letto occupi. Corriamo dentro e fuori le stanze come indemoniati, e sembra inevitabile che qualcuno stia tentando di uscire come qualche altro tenti di entrare. Ci scontriamo, imprechiamo, ci scambiamo colpi. Io stesso ricevo un colpo violento sull’elmetto.
Alcuni diavoli fortunati che hanno la buona sorte giusto di trovare le gavette, si affrettano a tornare al triplo galoppo giu per la scale. I porci!!! Mangeranno ogni cosa rimasta! Finalmente, trovo il mio zaino, ma appena sgancio la mia gavetta qualcuno salta sul mio letto con gli stivali sporchi, e butta ogni cosa sul pavimento. La mia gavetta rotola sotto il letto a fianco, e quando mi tuffo per recuperarla, la mia mano rimane schiacciata. Ritorno nel cortile, e là, sotto il bevevolo sguardo dei nostri noncom, occupo il mio posto in linea, sollevato al vedere che c’è ancora un pentolone con dentro qualche cosa. In questo momento di respito, guardo con attenzione i miei compagni. Ogni viso porta lo stesso sguardo bruciante di sfinimento. I magri, come me, hanno ampi lividi sotto i loro occhi, e i più cicciottelli sono color cenere. Do un’occhiata a Bruno Lensen.
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