Mauro Faina's blog

School Adventures

Archive for March 2011

Il soldato dimenticato XXVI – Dicembre 1942

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Si, tenente. Bene, allora buon natale! Che cosa? E’ natale? Si. Guarda laggiù, Indicò la casa dei Khorsky. Il tetto, pieno di neve, arrivava fino al livello del terreno; le strette finestre brillavano più intensamente di quello che le regolamentazioni del blackout generalmente permettevano, e in quella luce potei vedere le forme in movimento veloci dei miei compagni. Pochi momenti dopo una fiamma altissima si alzò da un enorme cumulo di legna che doveva essere stata inzuppata di gasolio. Una canzone accompagnata da trecento voci salì lentamente nell’immobilità della notte gelata. O Weihnacht! O stille Nacht! Era possibile? In quel momento, ogni cosa oltre il perimetro del campo era senza significato per me. Non potevo distogliere I miei occhi dalla luce del falò. Le facce più vicine alle fiamme erano illuminate; il resto si perdeva nell’oscurità, mentre il forte suono della canzone continuava, diviso ora in diverse parti. Forse le circostanze di questo particolare natale facevano una differenza sostanziale, ma era parecchio tempo dall’ultima volta che avevo sentito qualche cosa che non mi commuovevo così tanto.

Le memorie della mia prima giovinezza, ancora così vicina, mi ritornarono in mente per la prima volta da quando ero diventato un soldato. Che cosa stava accadendo a casa quella sera? Che cosa stava accadendo in Francia? Avevamo sentito dei bollettini che ci informavano che molte truppe francesi stavano ora combattendo con noi, notizie che mi rallegrarono. Il pensiero che uomini francesi e tedeschi marciavano fianco a fianco mi sembrava un fatto meraviglioso. Presto non avremmo più dovuto aver freddo; la guerra sarebbe finita, e avremmo potuto raccontare le nostre avventure a casa. Questo natale non mi aveva portato alcun dono da poter stringere in mano, ma mi aveva portato così tante buone notizie sull’armonia tra I miei due paesi che mi sentii confuso. Perchè sapevo che ora ero un uomo, ma tenevo fermamente in un angolo della mia mia testa una pazza e imbarazzante idea che mi perseguitava: mi sarebbe davvero piaciuto che qualcuno mi avesse regalato un giocattolo meccanico. I miei compagni stavano ancora cantando, e lungo tutto il fronte milioni di soldati come loro dovevano cantare allo stesso modo. Non sapevo, che, proprio in quell’ora, carri armati T34 sovietici, avvantaggiandosi della tregua che il Natale si supponeva avrebbe portato, stavano distruggendo gli avamposti della sesta armata nel settore di Armotovsk. Non sapevo che I miei compagni della sesta armata, in cui uno dei miei zii prestava servizio, stavano morendo a migliaia nell’inferno di Stalingrado. Non sapevo che le città tedesche stavano subendo un orribile bombardamento da parte della RAF e della USAF. E non avrei mai osato pensare che I francesi avrebbero rifiutato un patto franco-tedesco.Era, a modo suo, il più bel natale che avessi mai visto, fatto interamente di emozioni disinteressate e privato di tutti I futili contorni. Ero solo sotto un enorme cielo stellato, e posso ricordare una lacrima scendere lungo la mia guancia gelata, una lacrima nè di dolore nè di gioia ma di un’emozione creata dall’esperienza intensa. Quando tornai all’alloggio, gli ufficiali avevano messo fine alle celebrazioni, e ordinarono di spegnare il falò. Hals aveva conservato una mezza bottiglia di schnapps per me. La scolai con pochi sorsi, per non deluderlo.

Quattro giorni passarono. Il freddo terribile continuava, abbellito da raffiche piene di neve. Uscivamo solo per I servizi obbligatori, che riducevamo al minimo, e bruciavamo tonnellate di legna. Le case erano state costruite per conservare il calore, e qualche volta eravamo anche troppo al caldo. Ci sentivamo bene, e come è solito in certe circostanze, molto presto avemmo guai. I nostri iniziarono un mattino più o meno alle tre. Una guardia rumorosamente diede un calcio alla porta della capanna, facendo entrare una corrente di aria gelida e due soldati le cui facce bluastre e dure li fecero sembrare notevolmente simili. Corsero verso la nostra stufa, e passarono alcuni minuti prima che parlassero. D’accordo con tutti gli altri, gli gridai di chiudere la porta. Di contro, ricevemmo un’imprecazione, e ci ordinarono di metterci sull’attenti. Rimanemmo a bocca aperta, in qualche modo ci spaventammo e senza reazione, il tipo che aveva gridato, scalciò la panca vicino a lui, e gridando il suo ordine una seconda volta, si lanciò sul letto improvvisato di uno dei nostri uomini, strappando violentemente il cumulo di coperte, cappotti e giacche in cui il nostro compagno si era seppellito. Nella fioca luce della stufa, riconoscemmo i gradi di un sergente.

Written by dago64

March 13, 2011 at 3:29 pm

Il soldato dimenticato – XXV – Al posto di guardia nord di Minsk

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Stavo iniziando ad averne  abbastanza della Santa Russia e di guidare camion. Come tutti avevo anch’io paura dell’idea di trovarmi sotto il fuoco nemico, ma stavo anche cominciando a desiderare di usare il Mauser che mi stavo portando dietro da quasi un’eternità, senza mai poterlo utilizzare. Sentivo che in qualche modo sparare a qualche cosa mi avrebbe vendicato delle mie sofferenze patite per il freddo, e dalle mie vesciche. Le mie mani erano pesantamente rovinate grazie al continuo spalare, e i miei guanti di lana erano già pieni di buchi, mostrando la punta delle mie dita congelate. Le mie mani e i miei piedi erano talmente freddi che qualche volta il dolore sembrava mi pugnalasse al cuore. Il termometro rimaneva a circa 5 gradi sotto lo zero. Ora eravamo acquartierati a circa 15 miglia a nord di Minsk, a guardia di un vasto deposito di parcheggio per i veicoli militari. Occupavamo sette o otto case nel villaggio, e ne lasciammo solo una, la più grande,  per una famiglia russa. Il loro nome era Khorsky; avevano due figlie e asserivano di essere venuti dalla Crimea, di cui parlavano con nostalgia. Gestivano una specie di spaccio dove potemmo comprare cibo e bevande con i nostri stessi soldi e trovammo alcuni compagni con cui ammazzare il tempo.

La neve aveva smesso di cadere, ma il freddo stava crescendo sempre più intenso. Una sera, dopo che la nostra compagnia era stata nel villaggio per una settimana, fui messo in lista per un serivizio di guardia da due ore. Attraversai il vasto spiazzo del parcheggio, dove cinquecento o più veicoli di ogni descrizione erano mezzi seppelliti nella neve. Mi sentivo in apprensione tutto il giorno all’idea di camminare per quell’area di notte. Sarebbe stato così facile per i partigiani nascondersi in mezzo agli automezzi e spararci appena passavamo. Ma mi ero gradualmente convinto che la guerra, se esisteva dopotutto, si stava svolgendo da qualche altra parte. I soli Russi che avevo visto erano o mercanti o prigionieri, e sembrava altamente probabile che non ne avrei mai visti altri.

Con questa idea in testa, camminai verso la mia postazione, a circa 15 yarde dal primo veicolo, attraverso una trincea profonda una yarda. Che ci permetteva di arrivare fino agli automezzi, o ritirarci, senza trovarci esposti al fuoco nemico. I bordi della trincea erano già stati rialzati di quasi tre piedi dalla neve fresca, e ad ogni nuova nevicata eravamo obbligati a scavare. Mi misi nel posto di guardia che mi permetteva di vedere un po’ più lontano. Avevo avvolto una coperta sul mio cappotto, che mi permetteva a malapena di muovere le mie braccia.

Avevo rifiutato la mia razione di alcool, il cui sapore mi disgustava, ed mi stavo mentalmente preparando ad un altro assedio di incontrollabile tremore dal freddo. La notte era limpida, avrei potuto vedere un corvo a cento yarde. A distanza l’orizzonte era tagliato da una massa di cespugli striminziti. Tre delle quattro linee telefoniche che attraversavano il nostro campo erano visibili, e si allungavano via verso direzioni differenti. I loro paletti, piantati in maniera diversa nel terreno, era supporti scadenti per il filo spinato, che qualche volta cadeva giusto sulla neve. Il mio naso, la sola parte di me direttamente esposta al freddo, iniziò a bruciare. Avevo tirato il mio berrretto quanto il più possibile giu, in maniera tale che la mia fronte e parte delle mie guance fossero coperte. Oltre a questo indossavo l’elmetto richiesto per il servizio di guardia. Il maglione a collo alto che i miei genitori mi avevano inviato , si sovrapponeva all’estremità del mio berretto sulla mia nuca. Di tanto in tanto guardavo al grande mucchio di veicoli a cui stavo facendo la guardia e mi chiedevo che cosa avremmo dovuto fare se dovevamo muoverli in fretta. I motori dovevano aver raggiunto uno stato di magnifica solidità!

Mi trovavo alla mia postazione da un’ora buona quando, improvvisamente, una figura apparve ai limiti del parcheggio. Mi lanciai giu nel fondo della mia buca. Prima di estrarre le mie mani dalle profondità delle mie tasche, arrischiai un’altra occhiata oltre il parapetto. La figura stava avanzando verso di me. Doveva essere uno dei nostri uomini che faceva le ronde, ma poteva anche essere un bolscevico. Brontolando per lo sforzo, tirai fuori le mie mani dal riparo e presi il mio fucile. La culatta, appiccicosa per il gelo, mordeva le mie dita, quando manovrai la mia arma in posizione di fuoco e gridai: Chi è là? Ottenni una ragionevole replica, e il mio proiettile rimase in canna. Tutto sommato, ero stato prudente a prendere queste elementari precauzioni: era un ufficiale che stava facendo la ronda. Salutai. Tutto a posto?

Written by dago64

March 5, 2011 at 5:11 pm