Il soldato dimenticato – XXV – Al posto di guardia nord di Minsk
Stavo iniziando ad averne abbastanza della Santa Russia e di guidare camion. Come tutti avevo anch’io paura dell’idea di trovarmi sotto il fuoco nemico, ma stavo anche cominciando a desiderare di usare il Mauser che mi stavo portando dietro da quasi un’eternità, senza mai poterlo utilizzare. Sentivo che in qualche modo sparare a qualche cosa mi avrebbe vendicato delle mie sofferenze patite per il freddo, e dalle mie vesciche. Le mie mani erano pesantamente rovinate grazie al continuo spalare, e i miei guanti di lana erano già pieni di buchi, mostrando la punta delle mie dita congelate. Le mie mani e i miei piedi erano talmente freddi che qualche volta il dolore sembrava mi pugnalasse al cuore. Il termometro rimaneva a circa 5 gradi sotto lo zero. Ora eravamo acquartierati a circa 15 miglia a nord di Minsk, a guardia di un vasto deposito di parcheggio per i veicoli militari. Occupavamo sette o otto case nel villaggio, e ne lasciammo solo una, la più grande, per una famiglia russa. Il loro nome era Khorsky; avevano due figlie e asserivano di essere venuti dalla Crimea, di cui parlavano con nostalgia. Gestivano una specie di spaccio dove potemmo comprare cibo e bevande con i nostri stessi soldi e trovammo alcuni compagni con cui ammazzare il tempo.
La neve aveva smesso di cadere, ma il freddo stava crescendo sempre più intenso. Una sera, dopo che la nostra compagnia era stata nel villaggio per una settimana, fui messo in lista per un serivizio di guardia da due ore. Attraversai il vasto spiazzo del parcheggio, dove cinquecento o più veicoli di ogni descrizione erano mezzi seppelliti nella neve. Mi sentivo in apprensione tutto il giorno all’idea di camminare per quell’area di notte. Sarebbe stato così facile per i partigiani nascondersi in mezzo agli automezzi e spararci appena passavamo. Ma mi ero gradualmente convinto che la guerra, se esisteva dopotutto, si stava svolgendo da qualche altra parte. I soli Russi che avevo visto erano o mercanti o prigionieri, e sembrava altamente probabile che non ne avrei mai visti altri.
Con questa idea in testa, camminai verso la mia postazione, a circa 15 yarde dal primo veicolo, attraverso una trincea profonda una yarda. Che ci permetteva di arrivare fino agli automezzi, o ritirarci, senza trovarci esposti al fuoco nemico. I bordi della trincea erano già stati rialzati di quasi tre piedi dalla neve fresca, e ad ogni nuova nevicata eravamo obbligati a scavare. Mi misi nel posto di guardia che mi permetteva di vedere un po’ più lontano. Avevo avvolto una coperta sul mio cappotto, che mi permetteva a malapena di muovere le mie braccia.
Avevo rifiutato la mia razione di alcool, il cui sapore mi disgustava, ed mi stavo mentalmente preparando ad un altro assedio di incontrollabile tremore dal freddo. La notte era limpida, avrei potuto vedere un corvo a cento yarde. A distanza l’orizzonte era tagliato da una massa di cespugli striminziti. Tre delle quattro linee telefoniche che attraversavano il nostro campo erano visibili, e si allungavano via verso direzioni differenti. I loro paletti, piantati in maniera diversa nel terreno, era supporti scadenti per il filo spinato, che qualche volta cadeva giusto sulla neve. Il mio naso, la sola parte di me direttamente esposta al freddo, iniziò a bruciare. Avevo tirato il mio berrretto quanto il più possibile giu, in maniera tale che la mia fronte e parte delle mie guance fossero coperte. Oltre a questo indossavo l’elmetto richiesto per il servizio di guardia. Il maglione a collo alto che i miei genitori mi avevano inviato , si sovrapponeva all’estremità del mio berretto sulla mia nuca. Di tanto in tanto guardavo al grande mucchio di veicoli a cui stavo facendo la guardia e mi chiedevo che cosa avremmo dovuto fare se dovevamo muoverli in fretta. I motori dovevano aver raggiunto uno stato di magnifica solidità!
Mi trovavo alla mia postazione da un’ora buona quando, improvvisamente, una figura apparve ai limiti del parcheggio. Mi lanciai giu nel fondo della mia buca. Prima di estrarre le mie mani dalle profondità delle mie tasche, arrischiai un’altra occhiata oltre il parapetto. La figura stava avanzando verso di me. Doveva essere uno dei nostri uomini che faceva le ronde, ma poteva anche essere un bolscevico. Brontolando per lo sforzo, tirai fuori le mie mani dal riparo e presi il mio fucile. La culatta, appiccicosa per il gelo, mordeva le mie dita, quando manovrai la mia arma in posizione di fuoco e gridai: Chi è là? Ottenni una ragionevole replica, e il mio proiettile rimase in canna. Tutto sommato, ero stato prudente a prendere queste elementari precauzioni: era un ufficiale che stava facendo la ronda. Salutai. Tutto a posto?
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