Il rinnegato IV – Alla corte di Hussein
Capitolo IV – Alla corte di Hussein
Barbarossa sedeva nel suo magnifico palazzo di Algeri. Meditava profondamente. Hussein era sopravvissuto e questo lo faceva star male. Era addirittura sopravvissuto alla peste. Non l’aveva mai sopportato. Come ammiraglio del Sultano, riferiva tutte le manovre del Beylerbey. Un’autentica spina nel fianco. Non può avere mano libera nel Mediterraneo con la costante presenza dell’uomo di fiducia di Solimano. Hussein è amato e molto considerato a Costantinopoli. Non è possibile eliminarlo direttamente. Perché è questo che Barbarossa sta pensando di fare. Eliminarlo, ma un assassinìo sarebbe mal visto dal sultano. Ci vuole qualche cosa di più. A interrompere i suoi pensieri, uno dei più subdoli consiglieri. Muley.
“Mio re, mi hai fatto chiamare?”
“Quel dannato vecchio con l’aria da Santo è tornato, dobbiamo fare qualche cosa e sono convinto che hai già in mente un piano.”
“Mio signore, pensavo al nipote del sultano che abbiamo come ospite. Un immondo ubriacone, che ha combinato guai ovunque, ma può tornarci utile. “
“E come?”
“Nel desiderio di onorare suo zio in lui, ordinerai a Hussein di dargli in sposa sua figlia.”
“Sei pazzo? Rifuiuterà, lui l’adora”
“Esatto, signore. E il suo rifiuto sarà un insulto al sultano. Tu ti arrabbierai e lo farai giustiziare. Il tuo gesto sarà difficilmente censurabile. Un atto impulsivo, nulla di più, fatto per amore del Sultano.”
Hussein può finalmente riposarsi nel suo palazzo poco distante da Algeri. Aspira l’aria profumata dei saloni e finalmente può riabbracciare l’amata figlia, Hadija.
“Padre, finalmente qui con me. E’ meraviglioso riaverti qui. Ormai ti davamo per morto.”
“Si, è fantastico, non c’è odore di morte, né di carne bruciata. Anch’io pensavo di non rivederti.”
Improvvisamente il volto di Khadija si adombra.
“Padre…il cristiano che hai riportato con te mi fa paura. E’ sinistro, non parla, non guarda negli occhi. Una belva in gabbia. Sembra Shaitan, il demonio.”
“Ho condiviso molto con lui su quell’isola. Abbiamo visto cose indicibili. Niente può separarmi da lui. E’ pieno d’amarezza. Tutto ciò che ha amato è distrutto. Vive schiacciato dai fantasmi e dalla rabbia. Uno schiavo senza sogni. Povero Dago.”
Dago è di nuovo nella sua condizione di schiavitù. Il palazzo di Hussein è accogliente, comunque. Sembra che gli schiavi vengano trattati bene, anche se non sembra curarsene. Il suo sguardo è fisso nel vuoto, gli altri schiavi lo osservano incuriositi.
“Ehi, tu, sei il nuovo schiavo? Io sono Metiub e comando. Nessuno fa niente senza il mio permesso.” Dago come risposta colpisce pesantemente allo stomaco l’uomo, che cade a terra. In suo aiuto accorre Apollonio, un gigante di colore spaventoso. Ma nulla può contro le braccia di colui che hanno conosciuto i remi, la disperazione di chi ha nutrito le sanguisughe, la rabbia di chi ha visto tante tombe. Apollonio cade sotto i colpi possenti del veneziano. Ma attorno a lui, gli altri schiavi che lo bloccano e lo conducono al palo per riempirlo di frustate.. Il trambusto richiama Hussein.
“Che nessuno lo tocchi. Dago, io non sono tuo nemico”
“Sono tutti miei nemici. Su tutti io sputo”.
“Non ti capisco. Lasciatelo stare e chi osa toccare Dago, risponderà con la vita.”
Il Visir Muley non ha perso tempo. In veste di messaggero si presenta al palazzo di Hussein. Viene accolto con preoccupazione da Hussein, conscio dei tentativi del Barbarossa di eliminarlo.
“Che Allah copra di doni te e la tua bella famiglia, Hussein Bey. Sono messaggero di una notizia che ti farà felice.”
“Si? Di che cosa si tratta?”
“Il Beylerbey ha deciso di onorare tua figlia dandola in sposa al nipote del sultano, nostro ospite, il magnifico Shemal Pascià.”
“Ehi, ti burli di me? Io non…..”
“Mio padre è ancora provato, nobile Muley. Porta i nostri saluti e digli che risponderemo domani.”
Hadija ha già imparato l’arte della diplomazia e prende tempo. Muley si allontana con un inchino.
Dago ha potuto udire il colloquio. La sera è scesa. Khadija è sola, seduta sotto la luna. I capelli neri raccolti. Splendide perle ornano il suo collo. I raggi della luna delineano i tratti perfetti del suo corpo. Dago la osserva. I suoi occhi non sono spenti ora. Sembra che il suo odio svanisca, quando c’è un’ingiustizia da risolvere. E’ uno schiavo, ma ormai conosce Algeri e sa come può aiutare Khadija. “Vieni con me, certo odio tutti, ma stasera possiamo fare qualche cosa per fermare la tua sventura.” Khadija lo segue, quasi stupita dal gesto. Ma una forza invisibile la spinge a fidarsi del veneziano.
Dago sa dove abita Shemal, il nipote del sultano. Perennemente ubriaco, senza guardie, non è difficile parlargli. In compagnia di Khadija, Dago giunge presso la casa di Shemal. Ora deve trovare il modo di raggiungere la camera da letto del nipote del sultano. Ma un colpo di fortuna lo aiuta. Shemal è già per strada alla ricerca di vino, di nascosto, per non essere notato dai soldati.
“Buonasera, eccelso signore.”
“E tu chi sei, porco cristiano?”
“Un cristiano, che importa? Non sono degno di insudiciare la tua ombra.”
“Bene, almeno sei rispettoso, togliti di mezzo, devo bere qualche cosa”
“Aspetta, eccelso. Anche una nullità come me può esserti utile. Si dice che sei uomo di gusti raffinati. Prova questo vino.” Dago gli porge una bottiglia di vino pregiato, proveniente dalle cantine di Hussein.
“Eccellente. Non è la solita porcheria!”
“Posso farti avere molte bottiglie di questo vino e anche donne come questa!”. Dago toglie il mantello ad Khadija, fino a quel momento in disparte. Shemal la guarda estasiato, un corpo perfetto, dei seni meravigliosi.
“Per Allah,” esclama il sudicio turco. Cosa vuoi in cambio per avere donne come questa?”
“Poche misere monete. Nulla di più.”
“Bene, eccotele.” Shemal estrae dalla sacca pendente dalla cintola alcune monete e le offre a Dago.
I tre si dirigono presso una casa poco distante, avvolta nel buio. Dago lascia fuori Khadija e con Shemal entra nella casa misteriosa attraverso una porta secondaria, nel silenzio più assoluto. Alla fine di un lungo corridoio, una specie di grande salone con al centro una piccola piscina. Distese su grandi divani foderati di stoffe preziose, splendide donne, quasi nude. Shemal, sotto i fumi dell’alcol, si getta su di loro, cercando di afferrarle. Dago si allontana di corsa. Le donne si mettono a gridare, Shemal non ci fa caso e cerca di toccarle con le sue sudicie mani. Una delle donne chiede aiuto.
“Guardie, Guardie. Aiuto!”
Tre colossi appaiono nel salone e bloccano lo stupito Shemal.
“Che volete, come osate!”
“Come sei entrato? Ti uccideremo subito! Questo posto è proibito!”
Ad un tratto Shemal capisce. I fumi dell’alcol sembrano svanire. Un angoscioso senso di paura lo prende. Le guardie lo imprigionano e lo portano via.
“Come ha fatto quell’idiota a entrare nel mio Harem e ad aggredire le mie donne?” Si chiede Barbarossa, svegliato dal visir Muley.
“Che facciamo, mio signore? Sappiamo la pena per chi entra nell’harem.”
“Non posso giustiziare il nipote del sultano. Imbarcalo su una galera per Costantinopoli. Prepara una lettera dettagliata per Solimano. Deciderà lui.”
Hussein è felice. Offre un banchetto a tutti gli schiavi nel grande giardino della sua casa. Dago dovrebbe essere l’ospite d’onore, ma non è presente. Hadija va a cercarlo e lo trova sotto un albero, cupo, inespressivo.
“Perché non sei al banchetto?”
“Non mi interessa. Mi basta quello che mi danno per il mio lavoro.”
“Ma se ci disprezzi tanto, perché ci hai aiutato?”
“Un giorno ho scavato delle tombe con tuo padre. Abbiamo sepolto i nostri amici. E’ terribile. E’ qualche cosa che ti unisce. Anche se non lo vuoi. Tutti qui. Solo delle maledette tombe.”
“Mi fai paura, sento la sventura camminarti accanto. Il tuo odio è profondo. Una colata di lava. Si, mi fai paura!”
A queste parole, Dago la prende fra le sue possenti braccia e la bacia intensamente. Hadija smbra resistergli, ma poi si abbandona alla passione di un attimo.
“Volevo solo ricordare com’era. Era tanto che non lo facevo. E ora mi domando perché lo rimpiangessi. Non ho provato nulla.”
“Non puoi sentire niente. Sei morto dentro. L’odio ti corrode l’anima. Dovevi entrare in una delle tombe. Là saresti stato bene!”
Hadija si allontana piangendo, disperata. Sotto la luna lo schiavo è di nuovo solo nella prigione del suo cuore. Un’anima che non prova più nulla.
Una mattina il palazzo di Hussein si sveglia in un caos di voci e rumori. Gli schiavi si affrettano ovunque. Trasportano bauli, tappeti, oggetti preziosi. L’ultimo rapporto inviato dal nobile al Sultano ha fatto infuriare Barbarossa. Hussein sa di essere in pericolo. Vuole trasferirsi nella vecchia residenza nel deserto, dove sarà più protetto dalle spie e dagli assassini. I fidati guerrieri sudanesi lo difenderanno dall’odio del Beylerbey. Il Visir Muley è già a conoscenza dei preparativi. Sa che non Barbarossa avrà molti problemi se Hussein riesce nell’intento di fuggire nel deserto. Non può essere ucciso apertamente, se non si vuole scatenare l’ira del sultano. Hussein deve morire prima di lasciare Algeri.
Il palazzo è silenzioso. Il Visir si muove con sicurezza e sale le scale verso gli appartamenti del Beylerbey. Il pirata è immobile, appoggiato a una finestra. Preoccupato.
“Che la luce di Allah scenda su di te, Beylerbey,”. Il Visir di Muley s’inchina
“Sai che il vecchio bastardo se ne va nella sua tana nel deserto?”
“Certo, mio signore. Mi sono permesso di assoldare chi potrà ucciderlo prima di lasciare Algeri.”
“E chi potrebbe fare questo miracolo?”
“La luna nera.”
Anche Dago è impegnato ai lavori di trasloco. Certo, è uno schiavo, ma Hussein, non lo tratta come tale. Lo considera quasi un figlio. Spesso lo osserva, ma è come frenato da quello sguardo pieno d’odio. Un odio che tiene in vita il maledetto Dago. Non c’è posto per nessuno nel suo inferno. Nel fervore dei preparativi, Dago nota un mendicante appena fuori il giardino del palazzo di Hussein. Fatto strano, non è un luogo per mendicanti quello. Dago non lo perde di vista, nonostante sia intento a caricare le casse sui carri ammassati di fronte il palazzo di Hussein. Improvvisamente il mendicante si allontana e , non visto, Dago lo segue per i vicoli di Algeri. Un cavaliere con tipici abiti da beduino avvicina il mendicante. Qualche scambio di battute fra i due. Dopodichè i due prendono direzioni diverse e si allontanano. Dago non esita un istante e lancia una pesante pietra contro il cavaliere beduino, che cade pesantemente a terra, colpito alla testa. Dago lo perquisisce, ma la sua attenzione è catturata da una strana collana con una luna nera che il beduino porta al collo. Dago ritorna velocemente al palazzo di Hussein e cerca Hadija.
“Dimmi, sai cos’è questa?” Dago mostra lo strano oggetto alla donna
“Per Allah,!” esclama Hadija. E’ il simbolo della luna nera. Gli assassini. Una banda di sicari che uccidono a pagamento. Si drogano con il kif e sono ferocissimi. Anche Barbarossa li evita.”
“Credo che questa volta il Beylerbey abbia deciso di non evitarli. Andiamo da tuo padre.”
La notte è scesa su Algeri. Notte africana, col primo brivido di freddo umido. Un segnale proveniente dal palazzo di Hussein risveglia l’attenzione di un quartetto di uomini in nero, in agguato fuori dalle mura.
“Il segnale, andiamo!”
Una porticina si apre e il maggiordomo di Hussein accoglie il gruppo.
“Tutto a posto?” chiede uno degli assassini.
“Si, ho messo il sonnifero nel cibo di tutti. Non c’è nessuno sveglio che possa fermarvi.”
“Bene, allora andiamo.”
“Un momento. Non voglio sembrare indifferente né avido, ma vorrei essere pagato. La memoria dei debitori è sempre scarsa.” Come risposta il maggiordomo riceve un mortale fendente che lo passa da parte a parte.”
Il gruppo di sicari entra nel palazzo. Molti gli uomini addormentati. Grazie alle informazioni ricevute, sanno dove si trovi la camera da letto del vecchio Hussein. Salgono la scalinata e raggiungono il piano superiore. Pochi altri furtivi passi e possono scorgerlo, addormentato.
Un pugnale brilla alla luce della luna e l’assassino lo pianta con decisione su quello che sembra il corpo disteso di Hussein. Ma, stranamente, non c’è sangue da quel corpo. Gli assassini si ritrovano in mano solo un mucchio di lenzuola. Improvvisamente la luce delle torce, il rumore dei passi. Le ombre nere reagiscono come serpenti. E cercano una via di fuga. Ma il muro dei terribili sudanesi gli sbarra la strada. Sono abili, sono esperti. Riescono a ucciderne qualcuno. Ma i fedeli di Hussein non sono da meno. Gli assassini della luna nera cadono uno dopo l’altro. Rimane solo quello che sembra il capo. Uno sguardo allucinato, uno sguardo di morte. I sudanesi esitano, si bloccano di fronte a quell’uomo tanto terribile. Solo un uomo altrettanto terribile può affrontarlo. Dago si fa largo fra i sudanesi e con un bastone affronta il terribile assassino. Un duello breve, ma cruento. Prima una forte bastonata a frantumare la mano dell’avversario e poi, ormai indifeso, un colpo che riduce il suo cranio a poltiglia. Giustizia è fatta, Hussein è salvo.
“Incredibile, Dago. Questo era il più famoso assassino del mediterraneo e tu l’hai ucciso come un cane.”
“Non meritava altro. Ha seminato barbarie e morte.”
“Grazie, Dago. Ti devo…..”
“Non ringraziarmi. Ti ho salvato solo perché mi conveniva. Nessuna amicizia. Nessun sentimento. Domani potrò essere tuo nemico”
“Va bene, Dago. Come desideri. Accetta almeno l’incarico di maggiordomo, visto che il posto è vacante.”
“Farò ciò che posso signore,” risponde freddamente Dago.
Giorni tranquilli nel deserto quelli che seguirono. Dago, nella sua nuova veste di maggiordomo si occupò degli schiavi e del governo della residenza nel deserto di Hussein. Sempre all’erta, sempre pronto a difendere gli interessi del suo padrone, a cui il suo destino era legato se voleva sopravvivere. Ma la tranquillità non era di casa da queste parti. Un inviato del Barbarossa si presentò a palazzo. Consegnò di persona un cofanetto a Hussein. Il fidato del sultano già poteva immaginare cosa contenesse. Un cappio, un cappio di seta nera. Il volto di Hussein sbiancò, levò il capo verso il messaggero del Beylerbey con aria interrogativa.
“Questa è la mia condanna a morte!”
“Si, il Beylerbey ti offre la possibilità di toglierti la vita e risparmiarti la vergogna pubblica. Domani arriverà una pattuglia di Giannizzeri con l’ordine di portarti ad Algeri. A te la decisione.”
“Il Barbarossa non pensa a ciò che dirà il sultano?”
“Il sultano ha dato la sua approvazione. I re cristiani hanno stretto alleanza e si preparano ad attaccare l’impero. Il sultano ha bisogno dell’appoggio della flotta del Beylerbey che l’ha accordato, ma a una condizione….la tua vita. E il sultano ha accettato.”
Dago, presente all’incontro non esitò un attimo e sgozzò senza pietà l’inviato del Barbarossa.
“Dago, cosa hai fatto? Ora siamo tutti condannati a morte.”
“Esatto. E’ ciò che volevo. Elimineremo lo squadrone di Giannizzeri domani. Senza indugi. Ora siamo tutti condannati e costretti a combattere.”
“Che ci guadagneremo”, rispose il vecchio preoccupato. “ La sentenza resterà valida.”
“Forse si, forse no. Ci sarà la guerra con l’esercito cristiano, non avranno tanto di occuparsi di noi e prima che scoprano il nostro piano, passerà tempo.”
Dago si allontanò soddisfatto. Ce l’aveva fatta. Ora erano costretti a seguirlo, costretti a combattere. Dovevano obbedire ai suoi voleri. Aveva nuovamente scatenato la fame di morte che lo accompagnava. Hadija lo osservava nella penombra. Non sapeva se amare o odiare quell’uomo senza sentimenti. Quell’uomo che le faceva tanta paura, ma che amava disperatamente.
Al tramonto Dago era pronto a muoversi con i fidati sudanesi e gli schiavi. Il nutrito gruppo si diresse verso la gola che immetteva nella piana davanti il palazzo di Hussein. Là avrebbero atteso la colonna di Giannizzeri. Il giorno seguente la trappola era pronta. Dall’alto dei dirupi sovrastanti il passo, Dago dispose un gruppo di arcieri. Più in basso, presso le dune, il resto degli uomini si nascose ad attendere i soldati del Barbarossa. Era ormai il tramonto, quando la colonna di giannizzeri giunse alla gola. Si preparavano ad allestire un accampamento quando furono investiti da un nugolo di frecce che li decimò. Dalle dune saltarono fuori i terribili sudanesi e gli schiavi. Non ci furono superstiti. Presi di sorpresa, i turchi morirono l’uno dopo l’altro. Dago aveva trionfato. Un massacro, un bagno di sangue. Le sue vittorie erano sempre un trionfo della morte.
Dago rientrò a notte fonda. Ad attenderlo sulle mura del palazzo, Hussein e Hadija. Faceva freddo. Il vecchio sentiva dolore, molto dolore. Sentiva la fine vicina.
“Padre, tornano. Hanno vinto. Siamo salvi!”
“Salvi? No, figlia mia. Il demonio ha scatenato i suoi lupi e noi siamo le sue prede. Uno dei lupi è in agguato ad Algeri. L’altro è qui!”
Hussein sentiva pena per quello schiavo, ma allo stesso tempo lo temeva. Hadija aveva lo sguardo fisso su Dago. Solitario, feroce, unico e dimenticato. Lo schiavo non guardò nessuno. Lo sguardo indifferente a tutto e tutti. Al rientro non degnò di un’occhiata la dolce Hadija. Era pieno di sangue, sangue secco, che imbrattava la sua camicia bianca.
Nei giorni che seguirono, non ci furono altre sorprese, Dago aveva sempre più il controllo del palazzo. Ormai prendeva decisioni su tutto. Era uno schiavo padrone. Hussein lasciava fare. Sapeva di potersi fidare di quel giovane senza cuore, ma incorruttibile. Un bastardo senza anima, spinto solo dall’odio. Ma il pericolo era sempre in agguato. Hussein non si sentiva al sicuro. Barbarossa aveva sconfitto i re cristiani e ora il sultano lo avrebbe coperto di onori. Ormai sapeva che Barbarossa poteva ucciderlo quando voleva e temeva per Hadija. Era giunto il momento di fare qualche cosa. Convocò Dago.
“Mi sono giunte notizie da Algeri. Barbarossa è pronto ad attaccarmi.”
“Puoi fuggire, “ rispose Dago. “Possiamo farcela.”
“No, non scapperò. Ormai sono vecchio e l’idea di diventare un martire mi attrae. Ma mia figlia è giovane e ama la vita. Lei deve fuggire. C’è una galera che la aspetta ad Algeri che potrà condurla ai miei possedimenti in Anatolia. Devi aiutarmi a farla giungere sana e salva al porto.”
“Perché io?”
“Perché la posta in gioco è troppo alta. Sai anche che lei ti ama. Nonostante il tuo disprezzo per chi è tanto debole da avere dei sentimenti, ciò ti obbligherà a fare tutto quello che potrai”
“Avrò una scorta”
“No, troppo evidente. Cinque dei miei sudanesi ti accompagneranno. Li condurrà Iman”
La notte seguente la piccola colonna condotta da Dago si avviò alla volta di Algeri. Dago non si era mai completamente fidato dei sudanesi, abili guerrieri, ma anche mercenari all’occorrenza. In particolare Iman, molto intelligente, che più volte aveva manifestato l’intenzione di andarsene, in quanto Hussein era bersaglio del Barbarossa. Il sudanese aspettava solo l’occasione buona. E questa era giunta. D’accordo con i suoi uomini, appena giunto ad Algeri, avrebbe ucciso Dago e consegnato Hadija al Beylerbey.
Il porto di Algeri brontola nella notte. Il vento soffia tra le sartie e alcune ombre, furtive, si muovono con circospezione.
“Io vado avanti a esplorare. Dobbiamo evitare le pattuglie.” Disse Dago a Iman
“D’accordo, ti aspettiamo qui.”
“Ora, Iman?” Gli chiese Omar.
“Si, seguilo con Hassam e uccidilo. Poi porteremo la ragazza al Beylerbey”. Il negro sorrise, maligno. “Povero illuso,” Pensò. “Oggi tornerai nella polvere.”
Trascorsero alcuni minuti. Iman diventava sempre più nervoso. Omar e Hassam non tornavano. Il sudanese invio Alì a controllare cosa fosse successo.
“Iman, una cosa terribile” esclamò Alì al suo ritorno. “La ragazza è scomparsa. Ubah che la sorvegliava assassinato. Anche Hassam e Omar sono morti.”
“Non è possibile!”
“Eppure è così,” tuonò una voce nella notte. “Si sono fidati quando mi sono avvicinato e dopo è stato troppo tardi.” Dago era coperto di sangue. La mano ancora a stringere la daga.
“Sei uno stupido, Iman. Credevi che ti lasciassi l’iniziativa?”. Hadija è già sulla galera. Scorda il tuo dorato futuro con Barbarossa.” Non aveva finito di dire l’ultima parola, che Dago lanciò la daga contro Alì che, colpito al collo, stramazzò al suolo. Nell’altra mano di Dago la scimitarra. Iman è un abile guerriero e dovrà usare tutte le sue forze per ucciderlo. Ma Dago aveva la sua arma segreta. Durante il combattimento, versò contro la faccia di Iman dell’acido. Accecato dalla furba e sleale mossa di Dago, il grande sudanese non riuscì più a combattere. Lesto Dago gli sferra un colpo mortale alla carotide. Schizzi di sangue ovunque. Hadija era salva.
Dago guardò l’orizzonte e vide la galera allontanarsi. “Sei salva, Hadija…..da me!”. Hadija Ben Hussein guardò la costa africana allontanarsi. Il suo futuro sarebbe stato solo di solitudine. Il suo ultimo pensiero fu per Dago, che tanto odiava, ma che tanto amava.
Dago fece ritorno al palazzo di Hussein nel deserto. C’era un’atmosfera tesa. Tutti sapevano che Hussein era in cima alla lista dei traditori del Barbarossa. Presto i soldati avrebbero assaltato il palazzo e confiscato le sue proprietà. Hussein era conscio della situazione. Ma non aveva più le forze per combattere. Dago non capiva. Non voleva rassegnazione. Corse dal padrone.
“Hussein, maledizione, combatti! Non ti devi rassegnare!”
“Inutile cercare il fuoco sotto la cenere fredda. Sai, mi sarebbe piaciuto avere un figlio come te. Mi avrebbe riempito d’orgoglio.”
Dago rimase a pensare mentre osservava Hussein allontanarsi. “Vorrei lasciare che ti uccidessero, vorrei che non mi importasse, ma non ci riesco. A un certo punto ho cominciato a provare dell’affetto per te. Non so quando sia successo. Non posso abbandonarti ora e credo che siamo entrambi perduti.”
Intanto nel palazzo sia i sudanesi, la guardia personale di Hussein che gli schiavi cominciano ad agitarsi. Dago ascolta fra i corridoi i loro discorsi. Osserva i loro movimenti. Sono tutti in subbuglio. Aspettano l’ora buona per uccidere Hussein e andarsene dopo aver saccheggiato il palazzo. Dago aveva ancora molto potere, però. Era temuto e abilmente riuscì a mettere in giro voci che gli schiavi sarebbero stati tutti uccisi dai sudanesi. La notte seguente gli schiavi si ribellarono contro le loro guardie. Una vera battaglia infuriò per la grande tenuta di Hussein. I sudanesi erano forti, ma inferiori di numero. Gli schiavi riuscirono nell’intento di ucciderli tutti. I superstiti si lanciarono a saccheggiare il palazzo e cercarono Hussein per ucciderlo. Ormai la pazzia omicida era dappertutto. Due schiavi salirono fino alle camere da letto e vi trovarono Dago, chino sul vecchio morente.
“Alzati padrone, ti ho portato dell’acciaio affilato”, urlò uno dei due.
“Idiota,” gli rispose Dago. “Non ti sprecare, è morto.”
Gli schiavi si allontanarono. Cercarono tutto quello che si poteva rubare. Oro, gioielli, denaro, Hussein era un uomo ricco. Dago non si curò di loro. Salutò l’amico, stringendogli per l’ultima volta la mano,
“Addio, Ussein Bey. Vecchio amico, nonostante tutto. Non ho trovato odio sufficiente contro di te. Ho finito per amarti. Addio, padre.”
Il palazzo era ormai in fiamme. Gli schiavi si misero in marcia con i loro carichi di oro, gioielli e oggetti preziosi. Là fuori il deserto li attendeva. Nella loro lucida follia, non avevano pensato di portare l’acqua. Ben più preziosa dell’oro nel deserto. Il sole li fermò, esausti, fra loro anche Dago, che non aveva potuto fare a meno di seguirli. Stanco di soffrire, stanco di vivere senza amore.
All’improvviso piccoli cavalli bianchi montati dai beduini del deserto apparirono all’orizzonte. Gli schiavi si sentirono perduti. I beduini erano guerrieri senza pietà, senza obblighi verso Barbarossa, rispondevano solo al loro capo. Piombarono su quella massa immonda, assetata con i gioielli in mano. Ne decapitarono qualcuno al loro passaggio, senza esitare. Poi li legarono, uno dietro all’altro dopo averli fatti bere.
“Non vi illudete, bastardi infedeli.” Gridò il capo dei beduini. Vi diamo l’acqua perché ci servite sani e vivi. Uno schiavo vivo vale qualche cosa. A noi servono schiavi.”
Una risata scosse tutti. “Schiavi, “, rideva e rideva Dago. “Schiavi, per questo tanti sacrifici, morti, tradimenti per tornare a essere uno schiavo. Di nuovo! Incredibile.”
La lunga colonna si allontanò nel deserto mentre gli avvoltoi si abbassarono sui corpi decapitati. Dago, legato, gridava e gridava una sola parola: schiavo.
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