Il rinnegato V – Orbashà
Orbashà (prima stesura)
Dago con gli altri schiavi camminavano a seguito della carovana di beduini a cavallo. Era praticamente impazzito. Non smetteva più di cantare e gridare. I predoni del deserto non ne potevano più e cercarono di zittirlo. Uno scese da cavallo e tentò di imbavagliarlo, ma venne brutalmente morso. Allora gli altri beduini scesero dai cavalli. La lunga colonna si bloccò e si accese una rissa gigantesca fra Dago e alcuni beduini. Il veneziano ebbe il sopravvento, ma da dietro, sopraggiunse un altro cavaliere, il capo dei beduini che lo colpì pesantemente al capo con un bastone. Dago perse i sensi. Il beduino dalle vesti blu scuro su un cavallo bianco bardato ordinò ai suoi di risvegliarlo e legarlo.
“Ecco fatto, furie di Allah. Ecco sconfitto il nemico che non riuscivate a vincere e voi sareste dei guerrieri? Bah, mi fate pena.”
Gli rispose un beduino anziano, con due baffoni bianchi, quasi a rimproverarlo.
“Sei stato molto duro, Orbashà. E questo non è il momento di seminare il malumore fra i tuoi uomini. Qualcuno di loro potrebbe ascolare il richiamo di Mustafà Bey.”
“Osi discutere le mie decisioni, Saud? Taci o……”
“Non gridare con me, Orbashà. Ti ho tenuto sulle ginocchia. Ti ho pulito il naso. E ora giochi al terribile capo con me? Smettila o ti prendo a pedate.
“Non voglio litigare con te, vecchio caprone. La tua età ti protegge. Non colpisco le mummie!”
“Allah non è stato generoso con tua madre, quando le ha fatto partorire un asino con il cervello di un cammello!”
“Va bene, va bene,” disse ridendo Orbashà. “Piuttosto si sa qualche cosa di Mustafà Bey?
“Continua a raccogliere uomini. Ha chiamato giannizzeri e mercenari dall’Anatolia. Prepara le truppe e questo non mi piace.”
“Mmmm, Mustafà è astuto, non so, mi pare ci stia preparando qualche sgradita sorpresa.”
I due beduini a capo della colonna diedero l’ordine di fermarsi a bivaccare. La sera era arrivata. Gli schiavi furono riuniti presso delle vicine rocce. Sfamati e abbeverati. Dago cercò di capire in quali mani fosse finito. Seppe da un compagno di sventura, catturato prima di lui, che gli schiavi catturati dal terribile Orbashà, venivano venduti sulla costa a Tripoli o a Tunisi. Orbashà era invincibile a detta di molti. Rideva sia del Barbarossa che di Costantinopoli. Era libero come il vento. Uno dei beduini lanciò una pietra contro Dago e gli gridò di uscire dal gruppo.
Il veneziano fu condotto all’accampamento, verso la tenda più grande al centro. Nella tenda, ad attenderlo, Orbashà e Saud, distesi su ampi cuscini di seta rossa a mangiare frutta e carne arrosto. Orbashà lo invitò a sedersi con loro.
“Vieni, schiavo. Ho una lunga notte davanti a me e poco sonno. Mi sono ricordato di te e mi sono detto che potevi intrattenermi.”
“Dammi da mangiare e sarai intrattenuto.”
“Serviti, e parlami della tua gente, del tuo paese.”
“Sono uno schiavo, lavoro sotto la frusta e so sopravvivere. Sono merce in mano a Orbashà. Questa è la mia vita, il mio ieri, il mio oggi e il mio domani.”
“Non è molto, in cambio del mio cibo.”
“Neanche il tuo cibo è gran cosa. Ho sentito dire che il terribile Orbashà non ha tempo per mangiare. Ma è evidente che dipende dal livello dei tuoi cuochi.”
“Parli con cultura, ironia e amarezza. Si sente che non sei una bestia in catene come quelle che vendo solitamente. Se non vuoi parlare, parlerò io. Guardami. Sono il re del deserto. Sovrano degli spazi vuoti. Mio padre era Caid di Fez. Ma eravamo arabi in un impero di turchi. Così Barbarossa ha incaricato un cane assassino di eliminarci. Un cane che si chiama Mustafà Bey.”Orbashà continuò il suo racconto, con tono sempre più greve. “Una notte la mia casa è stata incendiata. I miei fratelli e le mie sorelle uccisi. I miei genitori sono morti nel fuoco e il nome della mia famiglia marchiato di infamia per l’eternità. Riuscii a scappare nel deserto e a diventare Orbashà, il fulmine della morte.”
Dago continuava a mangiare senza curarsi di quanto diceva Orbashà.
“Hai udito la mia storia?”.
La risposta fu un solenne rutto. Tonante.
“Ah ah ah, “ rise il beduino. “Mi piaci sempre di più, non meriti la schiavitù. Convertiti all’islam e diventi uno dei miei uomini.”
“Ho già una religione, caro il mio principe del deserto. E non do la fedeltà a nessuno, tanto meno a un imbecille che sta per essere ucciso!”
“Che vuoi dire? Non capisco.”
“Gli schiavi sono osservatori. Da qualche minuto non sento le sentinelle e guarda qui, dov’è la tua scimitarra. Non ci sono armi sotto questa tenda. Ti hanno tradito e secondo me, manca poco alla tua morte.”
“Stai delirando. Chi oserebbe……”. Orbashà si volse a guardare Saud, l’amico anziano fidato.
“Saud, perché piangi?”
“Sono stato io, Orbashà. Ti ho tradito. Io ho indicato la nostra posizione agli assassini. Ho fatto sparire tutte le armi. Ti ho tradito, non per cupidigia o fame di potere. Barbarossa ha fatto rinchiudere mio figlio nelle sue terribili prigioni. Ti prego, ho troppa vergogna. Uccidimi”
A queste parole un gruppo di sicari fece irruzione nella tenda. Scimitarre alla mano si scagliarono contro Orbashà. Ma non avevano fatto i conti con Dago, che lanciò un vassoio contro uno degli assassini. La scimitarra cambiò velocemente di mano e Dago, con la maestria dello spadaccino che era stato, colpì ripetutamente uccidendone tre in rapida sequenza. Orbashà completò l’opera. Sangue ovunque, Dago lasciò cadere la scimitarre e raccolse un coscio a terra e continuò a mangiare.
“Fatto, Orbashà. Io lo schiavo, ti ho salvato. A te il compito di uccidere il tuo amico”.
“Orbashà prese la scimitarra.”
“Saud……”
“Hai sentito lo schiavo? Lui è saggio e realista. Tienilo vicino. Ti servirà. Ed ora fai quello che va fatto. Senza esitare.”
Un colpo sordo interruppe il pasto di Dago. Saud era morto. Ora era lui il nuovo consigliere di Orbashà.
Nei giorni seguenti Orbashà osservò attentamente Dago, il suo nuovo guerriero. Non era avido, un combattente perfetto, senza emozioni. Ma c’era qualche cosa in lui che lo spaventava. La sua disumnità. Una specie di morto vivente uscito dalla tomba. Dago ora indossava le vesti dei beduini. Un abito blu con una vistosa fascia rossa alla vita. Il tipico turbante di questi guerrieri del deserto e nelle sue mani, l’immancabile scimitarra. C’era animazione nell’accampamento. Mustafà Bey si era messo in marcia con mille Giannizzeri e tremila cammellieri egizi. La sua carovana si snodava per miglia e miglia. Aveva cominciato la caccia a Orbashà.
Mustafa Bey era un uomo metodico, pratico. Non aveva il fisico del guerriero. Usava logica e buon senso. Era molto intelligente in battaglia e intendeva sconfiggere definitivamente Orbashà, che imperversava nel deserto, danneggiando il commercio del Barbarossa. Era in evidente superiorità numerica. Ma voleva evitare uno scontro diretto precoce. Ordinò di inquinare tutte le oasi della zona. In tal modo avrebbe costretto Orbashà alla resa o a un attacco frontale. I beduini, intanto, si erano mossi. Orbashà non aveva molto probabilità di sopravvivere. Senza acqua, in inferiorità numerica, gli rimaneva solo una morte onorevole. Dago non si perse d’animo. La sua fredda logica e capacità fu di nuovo un aiuto prezioso. Consigliò a Orbashà di attaccare le colonne di carri pieni di provviste per l’esercito di Mustafà. Avrebbero affamato i soldati turchi. Nei giorni successivi diversi assalti di sorpresa distrussero molti dei centri di vettogliamento di Mustafà. I beduini mordevano e fuggivano. Mustafà non potè più attendere. Divise l’esercito in due grossi gruppi per manovrare direttamente contro l’accampamento di Orbashà e chiuderlo in un’operazione a tenaglia. I cammellieri egiziani potevano muoversi a grande velocità nel deserto. La piccola città di Birka era la base delle operazioni di Mustafà. I generali del turco si riunirono per preparare l’intera operazione. Dago, travestito da contadino assieme a Orbashà, si trovava proprio nella cittadina, per carpire utili informazioni e portare a termine un piano per bloccare definitivamente Mustafà. Nel tentativo di entrare nel vasto accampamento di Mustafà, Orbashà si fece scoprire. Immediatamente fu dato l’allarme. Accorsero le guardie e i due si trovarono accerchiati. I due cercarono di fuggire verso i cavalli, ma i soldati erano troppi. Dago, allora, coprì la fuga di Orbashà e mentre il capo beduino fuggiva a cavallo, il veneziano continuò a combattere. Orbashà potè vedere solo Dago sopraffatto dai soldati. Mustafà volle subito al suo cospetto il beduino catturato. Voleva sapere l’esatta posizione di Orbashà per annientarlo. C’era poco tempo, i viveri scarseggiavano e aveva bisogno di una rapida vittoria. Dago non disse nulla e venne portato in una camera per la tortura. Mustafà si mise subito in marcia contro Orbashà, anche se non conosceva esattamente la sua posizione. Gli esploratori di Mustafà trovarono tracce dei beduini e l’intero esercito turco si mosse alla caccia dell’odiato arabo. In pieno deserto, l’impensabile accadde. A decine cominciarono a stramazzare a terra, morti, sia i cavalli che i cammelli. Ben presto la lunga colonna rimase appiedata. Tutte le cavalcature erano state avvelenate. Orbashà e Dago erano riusciti nell’impresa. Birka era lontana. I 5000 soldati non avevano abbastanza acqua per tornare a piedi. Il sole era insopportabile. Dalle alte dune apparvero i guerrieri blu di Orbashà. Ma non attaccarono subito. Attesero, e al tramonto dell’esercito di Mustafà non rimaneva che qualche sventurato quasi morto di sete. Furono tutti trucidati. Solo Mustafà fu risparmiato. Orbashà aveva un debito con un amico e voleva ricambiare. I beduini non erano d’accordo. Il nemico giurato era nelle loro mani e ora dovevano risparmiarlo? Orbashà si era messo contro la sua gente, contro i capì tribù per salvare Dago. Ma i suoi uomini non glielo permisero. Il mattino dopo Mustafà fu trovato decapitato. Il consiglio dei capi tribù aveva deciso la morte del turco. Orbashà non poteva mettere la lealtà davanti al bene delle tribù beduine. La sera stessa fu convocato il consiglio dei capi beduini. Orbashà non si era arreso. Voleva trovare il modo di salvare l’amico. Dago era rinchiuso a Bikra, un’autentica fortezza. Certo, l’esercito di Mustafà era solo un ricordo, ma la guarnigione poteva contare su robuste mura e cannoni. Il consiglio dei capi beduini ascoltò attentamente le parole del loro condottiero Orbashà. Si discusse, e tanto, rischiavano di perdere molti uomini. Molti non capivano l’ostinazione di Orbashà, potevano trovare bottini più a buon mercato.
“Sapete che non vi ho mai nascosto la verità e vi parlo con il cuore in mano. Voglio salvare il cristiano che mi ha salvato la vita. E’ mio amico, solamente questo, è un mio amico. Cosa faresti al mio posto, Raschid?”
“L’amore dell’uomo per la donna impallidisce e cala come la luna. L’amore per l’amico è eterno, come la parola del profeta. Se tu non fossi capace di bruciare mezzo mondo per aiutare un amico, non saresti l’uomo che ho seguito per anni senza esitare. E sia. A Bikra.”
La grande tenda del consiglio risuonò al grido di battaglia dei capi beduini. Le scimitarre sguainate, le lame rosse alla luce delle candele già reclamavano il loro tributo di sangue.
Intanto Dago era prigioniero in una delle celle della città di Bikra. Era impossibile scappare. L’unica uscita era una robusta porta di legno, guardata costantemente da una guardia e chiusa con un pesante lucchetto. La luce penetrava da una piccola apertura, ma non era sufficiente a illuminare l’intera cella, dove una decina di schiavi attendevano il loro destino. Dago aveva fatto amicizia con il medico delle prigioni, schiavo anche lui, che quotidianamente visitava tutti gli schiavi per verificare le loro condizioni e se erano in grado di essere avviati alle galere in qualità di rematori. Quello era il destino di Dago, beffardamente gli si profilava un nuovo inferno su una galera turca.
Una mattina, durante il solito giro d’ispezione, il medico fu assalito.
“Sei un maledetto boia, ci vuoi mandare alla morte.” Lo schiavo cipriota gridò all’indirizzo del medico e lo colpì con un pugno, gettandolo a terra. Altri lo presero a calci, ma in sua difesa intervenne Dago.
“Lasciatelo stare, lui è uno schiavo come noi!”
“Lo difendi, bastardo?”
Dago stese il cipriota con un calcio allo stomaco e lo colpì al volto ripetutamente. Sfidò gli altri ad avanzare. I suoi muscoli da incubo tesi allo spasimo, il sangue sulle sue nocche li fecero desistere. Il medico potè allontanarsi. Durante la notte, dalla piccola finestra sbarrata la voce del medico.
“Dago, avvicinati. Ascoltami bene. Il tuo gruppo sarà consegnato alla flotta di Algeri. L’unico modo per non andarci è ammalarsi.”
“Non sono malato”
“Dimentichi che sono medico, bevi questo e fidati.” Il medico gli porse una boccetta piena di uno strano liquido. Dago non aveva niente da perdere e la bevve tutta d’un fiato.
Il mattino dopo i soldati turchi fecero irruzione nelle prigioni e intimarono a tutti gli schiavi di uscire nel cortile. Dago non si reggeva in piedi dalla febbre. Batteva i denti. Il medico accorse e diagnosticò una terribile febbre. Mentre gli altri schiavi venivano condotti via, Dago rimaneva nella prigione, assistito dal medico.
Il piano per attaccare Bikra era pronto. Le alte mura delle città sarebbero state scalate da un piccolo gruppo di uomini. Eliminate le guardie e aperta la via d’accesso alla città, i beduini di Orbashà sarebbero penetrati sfruttando la sorpresa. Quella notte fu l’inferno per Bikra. La sorpresa fu totale. I soldati turchi furono tutti trucidati, la città saccheggiata. Il padrone di Bikra, Kerim Bey, fu sgozzato senza pietà. Orbashà corse verso le prigioni a liberare Dago.
“Sei pazzo, hai osato attaccare Bikra…”
“Osato? L’ho presa e non lascerò di lei una pietra. Né creatura vivente.”
“C’è un amico che devo proteggere, Orbashà. Mi ha salvato la vita.”
Dago corse fuori nel cortile e cerco per le strette strade della città fortificata. Ad un tratto vide il medico. Trafitto da una lancia beduina. Dago lo osservò addolorato.
“Che ti succede, Dago? Perché guardi quel morto?”
“No, niente, pensavo di conoscerlo.” Dago non disse nulla al nuovo amico. Era il giorno della sua gloria. Non poteva deluderlo riguardo alla morte del medico. Dago, in silenzio, chiese perdono a quell’uomo che lo aveva salvato dalle galere del Barbarossa.
I beduini tornarono al campo per festeggiare. Un vecchio narratore ricordava la storia di Dago, ignara vittima di cani infedeli che magicamente era sopravvissuto alla daga del suo acerrimo nemico. La sua baraka, il suo destino non era quello. Allah lo aveva salvato e lo aveva condotto fra i beduini del deserto. La morte non era la baraka di Dago.
Il veneziano ascoltava e pensava. Ora le sue gesta erano leggenda. Al fianco del leone del deserto, Orbashà, aveva sconfitto il pericolo turco. Dago voleva lasciarsi andare. La sua testa gli scoppiava. Era bello stare con quei nuovi amici, liberi e fieri. Avrebbe potuto lasciarsi tutto alle spalle. La sua vendetta, aprire di nuovo il suo cuore. Una nuova vita davanti a lui. No, non era possibile. Troppo forte il suo desiderio di vendetta, troppo forte il suo bisogno di sangue. C’erano quattro morti nel suo futuro. Quella era la sua baraka.
Orbashà intendeva attaccare anche l’altra fortezza turca di Sidi Hadjed, per far capire ai turchi che il deserto gli apparteneva. Per far questo doveva attraversare il territorio dei Tuareg, i dimenticati da dio. Non accettavano alleanze. Erano nemici dei turchi e dei beduini. Selvaggi, spietati e senza dio. I Tuareg costituivano un’altra minaccia per i piani del leone del deserto. Dago, abile stratega oltre che abile guerriero, chiese il permesso di parlare con i Tuareg, voleva fare un tentativo per portarli dalla sua parte. Orbashà non capiva, non era un diplomatico, solo un gran combattente. Ma lo lasciò andare. Dago partì alla volta dell’accampamento Tuareg. Era un insediamento enorme. I Tuareg lo osservavano mentre entrava, ma in silenzio, senza un solo movimento. Un istante e un tuareg si lancia sul suo cammello contro Dago. Il beduino cristiano non si lasciò sorprendere e con un abile scatto sbalzò di sella l’avversario, uccidendolo senza pietà. Nessuno si mosse o parlò. Dago ruppe il silenzio.
“Sono venuto in pace. Porto le parole di Orbashà, il leone del deserto. Lui dice, devono i leoni combattere fra di loro mentre la jena ride? O sarebbe meglio unire le loro forze?”
“Pace?”, esclamò il capo tuareg con il volto semicoperto, si poteva scorgere solo due occhi penetranti e fieri. “Questa parola non esiste nel Fezzan. E’ da uomini col cuore di donna.”
“E queste sono parole senza cervello. Che piacere potresti ricavare dalla morte dei tuoi?”
“La morte è un timore da deboli. I Tuareg non la temono.” E a queste parole mise la sua mano nelle braci ancora calde. Dalla folla grida di ammirazione.
“Senti? E’ la voce del mio popolo, ma che ne sai tu, cosa può saperne un beduino cristiano?”
“So, so Oul Adouin.” Dago prese in mano i carboni ardenti e le lanciò all’indirizzo del capo tuareg.”
“Cane, ti faro uccidere!”
“Certo, a parole sei grande, morirò da guerriero per mano di un asino circondato da tutta la sua tribù.”
“Questo credi? Che io abbia bisogno dei miei fedeli? Preparate le siepi di acciaio. Ora vedremo il coraggio di ognuno di noi.”
Le siepi d’acciaio erano una prova di forza all’ultimo sangue. Nel terreno si conficcavano una serie di lame ricurve. Due uomini si disponevano di schiena rispetto alle lame e tiravano una corda. Chi avesse ceduto per primo, sarebbe finito sui ferri appuntiti. Adouin e Dago tiravano, tiravano. Nessuno cedeva. Il sole cominciava a calare e nessuno aveva ancora vinto. Poi, improvvisamente, all’unisono, i due uomini cedono. Si guardarono per un istante e poi, lentamente, le loro bocche si piegarono al sorriso, fino a scoppiare a ridere. La folla urlava i loro nomi in un canto di trionfo.
La mattina seguente al campo di Orbashà ci si preparava per l’attacco alla cittadella turca. All’orizzonte migliaia di guerrieri apparsero all’improvviso. “I Tuareg”, gridò un soldato. Alle armi. Ma dalla colonna si staccarono due uomini. Erano Dago e Adouin.
“Orbashà, fratello, ti presento un nuovo alleato, Oul Adouin. E’ un autentico guerriero che inorgolglisce chi combatte con lui.” Orbashà porse la mano al nuovo alleato e dalle dune i Tuareg lanciarono un immenso grido, seguito da quello dei beduini. Si poteva udire un solo nome: Dago, Dago, Dago. Lo schiavo aveva smesso di essere schiavo. Ormai era leggenda nel deserto. Il cristiano beduino, il cristiano Tuareg, l’uomo rinato nel deserto.
Sidi Hadjed, la città turca, non aveva speranze. La forza d’urto di beduini e Tuareg aveva ridotto a un cumulo di macerie la fortezza, ultimo avamposto turco nel deserto. Dago, Orbashà e Adouin la osservavano dalla duna, ormai rovina fumante. Si preparavano all’ultimo assalto.
“Un’altra città cadrà,”, disse Orbashà. “Ci sarà un altro immenso bottino. Barbarossa ululerà di rabbia.”
“E la popolazione?” Chiese Dago. “Non sono turchi.”
“Hanno accettato il dominio turco e ne pagheranno le conseguenze. Divideranno la sorte dei loro padroni.”
“Ci sono donne e bambini.”
“C’erano anche nelle tribù che i turchi hanno massacrato. La pioggia bagna tutti.”. Adouin annuì con il capo e aggiunse.
“Che ti succede, Dago, Il tuo sangue si è indebolito?”
“Il mio sangue è debole solo quando si parla di uccidere degli innocenti. E questa gente è innocente, qualsiasi cosa succeda. Le vittime esistono. Non c’è solo la vittoria!”
A capo della guarnigione di Hadjez, il comandante Hefaz Pascià. Sapeva che non avrebbero potuto resistere a un’altra carica. La morte lo attendeva. E così la sua famiglia. La sua donna, la sua sposa, gli aveva appena dato un bambino. E già doveva morire. No, non poteva permetterlo. Doveva fare qualche cosa. Inviò un messaggero turco al campo beduino per una tregua che avrebbe consentito alle donne e i bambini di salvarsi. L’inviato di Hadjez non venne ascoltato. Era una richiesta fuori luogo a poche ore dalla definitva sconfitta. Dago non sapeva che fare. Era pieno d’odio, perché doveva importargli? La sua anima era persa, definitivamente. Oh no? Un dubbio lo attanagliava. Poteva ancora riscattare la sua anima persa? Poteva mettere da parte il suo rancore per salvare degli innocenti? Queste domande meritavamo risposta. Disse al messaggero che l’avrebbe seguito fino dal suo padrone. Di fronte alle mura di Hadjez, ad attendere il ritorno del messaggero, Hefaz Pascià. Dago lo guardò in silenzio. La luna era spettrale, dispensatrice di morte. Due uomini di mondi diversi si scambiarono silenti occhiate. Hefaz riconobbe subito l’uomo cristiano, ormai leggenda nel deserto.
“Tu sei il beduino cristiano, perché sei venuto?”
“Perché non hai chiesto pietà e immagino che non sia stata la paura a spingerti a chiedere una tregua. Dimmi, perché?”
“Tra quelle mura c’è mio figlio. Nato da poco. E altri come lui. Donne che non hanno colpe potrebbero morire domani. Mio figlio. Tanto fragile e lo amo tanto. Ho chiesto pietà per lui e per gli altri innocenti.” Il suo sguardo era fisso nel vuoto. Un solo desiderio gli era rimasto. La disperazione era ormai la sua compagna. Dago lo ascoltò in silenzio e pensò quanta ingiustizia c’era a causa della stupida crudeltà degli uomini. Perché gli innocenti devono soffrire? Perché? Perché? Con queste domande Dago fece ritorno al campo, deciso a fare qualche cosa, almeno per Hefaz.
Una nuova alba su Hadjez. L’ultima che potevano vedere i suoi difensori. Ben presto, in nome di Allah o qualsiasi altro dio, un nuovo massacro sarebbe stato compiuto. I Tuareg e i beduini non faticarono molto a vincere l’estrema resistenza della città. Dago con il consigliere di Orbashà, Raschid, si allontanò furtivamente dal combattimento sulle mura e si diresse verso un’entrata secondaria della città, che Hefaz gli aveva lasciato libera e aperta che conduceva ai sotterranei. Qui, ad attenderlo, Hefaz Pascià e la famiglia. Raschid estrasse la scimitarra, ma Dago lo fermò.
“Calma, Raschid. Hefaz non è qui per fuggire. Vuole garantire una via di fuga per la sua sposa e il figlioletto.”
“Grazie Dago, sapendo che porterete in salvo lui e la mia sposa, combatterò senza paura di morire con i miei uomini. Lotterò come nessuno ha mai fatto, sperando che un giorno mio figlio ne sentirà parlare.” Raschid si occupò di accompagnare la donna e il figlio, mentre Hefaz si allontanava verso l’ultima battaglia. Dago si fermò un attimo a contemplare quello che aveva fatto. Si sentiva in pace con la sua coscienza. Un fragore lo riportò alla realtà della guerra. I turchi avevano minato la città e la volta del sotterraneo crollò sommergendo Dago di macerie. Raschid si voltò indietro, senza vederlo più. “Dago è morto.” Pensò. “Vieni, donna. Almeno tu e il bambino dovete sopravvivere”.
Sugli spalti l’ultimo manipoli di difensori turchi guidato da Hefaz moriva eroicamente. Il comandante turco fu l’ultimo a perire, più volte colpito, più volte rialzatosi, dimostrò tutto il suo valore. L’ultimo pensiero fu per il figlio, ormai salvo. La città era presa, ma la gloria fu effimera per Orbashà e Adouin. I rinforzi turchi chiamati da Hefaz in precedenza, stavano avanzando velocemente. Gli esploratori beduini in avanscoperta ne avevano dato l’annuncio. Poche ore e migliaia di giannizzeri turchi si sarebbero riversati nella piana di Hadjez. Orbashà e Adouin non poterono far altro che ritirarsi. Non poterono recuperare nemmeno il corpo di Dago, dato ormai per morto.
Arrivarono a mezzogiorno, un paio d’ora dopo la fine della battaglia per Hadjez. Ovunque morti e distruzione. Orbashà aveva ancora una volta trionfato. I soldati si misero alla ricerca dei superstiti. Nei sotterranei, l’attenzione di due giannizzeri fu attratta da delle pietre che si mossero. Ne spuntò un braccio. Afferrarono il braccio e tolsero le pietre che coprivano quel povero corpo martoriato. Dago era ancora vivo!
“E’ un beduino”, esclamò un soldato.
“No,” disse l’altro. “E’ un cristiano vestito da beduino. Un uomo di Orbashà. E’ un miracolo che sia ancora vivo.”
“Un miracolo, dici? Per lui sarà una maledizione.”
Dago fu incatenato. Ma non sembrava preoccuparsi di quello che succedeva al suo corpo, coperto di sangue e sporco. Il suo pensiero andò a quella piccola creatura che aveva salvato. Aveva salvato la sua anima. L’indomani la colonna turca con Dago in catene ripartì alla volta di Ghardaia.
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