Il rinnegato – VI – Il giannizzero nero
Il Giannizzero nero VI (prima stesura)
La lunga colonna arrivò a Ghardaia all’imbrunire. Dago si trovava in compagnia di alcuni beduini catturati ed era tornato a essere solo un miserabile schiavo al servizio dei turchi. Il destino continuava a giocare con lui. Fino a poco tempo prima era leggenda con il suo amico Orbashà. Ma sapeva bene che le fortune degli uomini svanivano facilmente. Solo la sua perenne sete di vendetta lo faceva resistere.
La città di Ghardaia si trovava nella valle del Mzab, in pieno deserto sahariano, a 600 km da Algeri. Una città fortezza costruita su una collina alla cui sommità si ergeva la moschea. Abitata prevalentamente dai Mozabiti, di pura razza berbera, molto religiosi. Le abitazioni erano tutte uguali. Il lusso era bandito dalla comunità mozabita. Il turco invasore ne aveva fatto una delle sue principali basi di appoggio. Qui era giunto Dago. Una città nel nulla lo attendeva. Il caldo a fargli compagnia. I prigionieri camminarono per le strette stradine della città, fino a raggiungere le prigioni, vere fornaci per i malcapitati. Dago era l’unico schiavo in condizioni decenti e l’ufficiale della colonna dei giannizzeri lo scelse come dono da portare al governatore della regione, il terribile Amur Bajà. Doveva recargli brutte notizie e temeva per la sua vita. Forse un dono lo avrebbe calmato. Così Haschim Bey, scortato da due soldati, si presentò dal suo signore. Dago, legato, al seguito. Amur non era tipo da accettare scuse o giustificazioni. Orbashà aveva raso al suolo Sidi Hadjed Dine e Haschim Bey fu ritenuto responsabile della grave perdita.
“Omar,”disse Amur “ Lava questo insulto.”
La gigantesca scimitarra apparse nelle mani di Omar e in un attimo, Haschim, tenuto dai suoi stessi soldati, fu decapitato.
Dago assistette a tutta la scena. Il suo sguardo era apparentemente assente. Non disse una parola. Amur era vecchio, molto vecchio. Un volto mummificato. I suoi occhi erano simili a due ragni verdi, attenti e maligni. Un vecchio, stanco, ma allo stesso tempo inquietante. Dago venne condotto via. Amur aveva apprezzato il fisico del veneziano e lo affidò alle cure del suo dottore personale, il persiano. Dago fu curato e nutrito e cominciò a insospettirsi. Non era quello il trattamento destinato a uno schiavo, per di più un beduino cristiano che aveva combattutto a fianco di Orbashà. Non capiva. C’era qualche cosa che gli sfuggiva. Erano tutti stranamente gentili con lui. Doveva fingersi pazzo. Ecco la soluzione. Se lo avessero preso per pazzo, lo avrebbero ignorato senza sorvegliarlo strettamente. Uno schiavo intelligente avrebbe invece richiesto maggiore attenzione. Il persiano, si occupava personalmente delle condizioni di salute di Dago. Un turbante cilindrico e lungo ornava la sua testa. Parlava con voce bassa, quasi un sibilo. Piccolo e magro, si muoveva sempre furtivamente. Dago cominciò proprio con il persiano la sua finzione.
“Potrò mangiare molto padrone? Ho tanta fame, non c’è mai cibo a sufficienza per il povero Dago.” Mentre recitava la sua parte, si aggrappava alla tunica del persiano, con gesto implorante.
“Potrai mangiare tutto quello che vorrai, Dago.”
“E i dolci, ci saranno i dolci? Oh, mi piacciono tanto!”
“Si, si avrai anche i dolci, ma ora staccati dalla mia veste e vattene!”
Nei giorni successivi dago prosegui’ con la sua recita. Ormai molti non gli badavano e poteva meglio guardarsi intorno per decidere il da farsi. La sua bellezza aveva destato l’interesse di due donne dell’harem: Zunilda e Amina. Soprattutto Zunilda, una bionda occidentale finita prigioniera, si era affezionata al veneziano. Lo chiamava un dolcissimo idiota e il suo sguardo provava affetto e compassione. Dago fingeva di essere felice con lei. Aveva notato quella ragazza. Bella, ma stupida e chiacchierona. Poteva fare al caso suo. ” Chi viveva qui prima di me, zunilda? L’hai conosciuto? Era amico tuo? Mangiava tanti dolci?”
Li ho conosciuti tutti, dago. Uomini giovani e belli. Ora sono tutti nella botola. Ma vieni, mangiamo questi datteri.
Una botola? Si chiese dago. Stanotte dovro’ dare un’occhiata. Nessuno mi sorveglia. Potro’ agire indisturbato. Quella notte stessa dago agi’. La botola si trovava nel cortile. Era sempre guardata a vista, ma solitamente la notte era lasciata incustodita. Dago la raggiunse e sollevo’ il coperchio pesante. La luce della luna illumino’ una scena terribile. I cadaveri ormai decomposti di decine di poveri diavoli giacevano sul fondo del pozzo. Un odore indescrivibile. Dago richiuse la botola provando disgusto e orrore. Cosa succedeva in quel posto dimenticato da dio? L’ispezione notturna prosegui’. Dago voleva capire e si diresse verso gli alloggi delle guardie, ancora sveglie. Delle voci lo attirarono.
Quando lo farai? Dago pote’ scorgere uno dei tirapiedi di amur chiacchierare con il persiano
Domani amur baja e’ molto debole e spaventato. Non puo’ aspettare
E incredibile che sia ancora vivo ha più’ di cento anni
E la mia cura segreta un giorno non bastera’
E’ atroce quello che fai. Un bagno di sangue umano. Non posso pensarci.”
” Il sangue e’ l’ingrediente principale, ma uso anche erbe, minerali e polveri di serpenti.
Ora era tutto chiaro. Amur usava gli schiavi come riserva di sangue. Dago era il prossimo . Presto il pozzo dell’orrore sarebbe diventato la sua ultima prigione. Le giornate trascorse con la bella e stupida zunilda erano finite. Il sole stava tramontando quando un soldato di amur entro’ nella stanza per prendere dago. Lo schiavo fu condotto nel laboratorio privato del persiano. Sembrava una stanza uscita direttamente dalle viscere della terra. Un odore solforoso dappertutto. Su un tavolo recipienti contenenti materia in ebollizione.. Un lungo tubo finiva la sua corsa in una vasca ampia dalle pareti grasse e vischiose. Amur era gia’ disteso sul fondo. Dago osservo’ la scena fingendo di non capire. Il persiano si rivolse al suo servitore jalil
“Sai cosa devi fare” jalil sguaino’ la sua spada alle spalle di dago, ma non ebbe il tempo di completare la sua missione. Dago estrasse dalla sua giubba bianca un bastone appuntito che pianto’ con forza nella pancia di jalil. Raccolse la scimitarra e freddo’ senza esitare lo stupito persiano. Amur era spaventato ora. Nella vasca, alla merce’ di dago.
” Stai attento a cio’ che fai. Io sono amur baja…”
” So cosa sei. Ho visto il pozzo. Sei una vergogna dell’umanita’. Non ti tocchero’ il tuo contatto mi farebbe odiare la mia pelle. Ma non posso permetterti di continuare a vivere. Non lo faccio per lo schiavo, lo faccio per l’uomo che e’ ancora in me.”
Dago apri’ il rubinetto della conduttura che serviva per lavare la vasca dopo i trattamenti. Amur affogo’ lentamente. Il rumore pulito, cristallino dell’acqua copri’ gli ultimi spasmi di quell’essere immondo.
Dago non perse tempo e spoglio’ jalil dell’uniforme. La indosso’ e usci’ dal laboratorio del persiano. Cosi’ travestito si diresse verso le scuderie. Preso un cavallo e indisturbato lascio’ la citta’. Le guardie non lo fermarono ritenendolo jalil, considerato un tirapiedi maledetto di amur e, dunque, scansato e temuto allo stesso tempo.
Mentre dago si perdeva nella notte del deserto, alcuni soldati udirono l’acqua scorrere.
Dago non aveva potuto prendere nulla con se durante la fuga. Ricercato, senza acqua avanzava alla cieca in quel deserto, implacabile con gli sprovveduti. Ben presto gli mancarono le forze e sfinito, stramazzo’ a terra con il suo cavallo, svenuto ad attendere la morte. Ma non si risveglio’ all’inferno.
Un senso di benessere, di frescura, di pace. Un odore di legna e di carne arrosto. No, non era l’inferno. Una donna mora, non bella, ma dalle mani leggere e amorevoli era china su di lui.
“Dove sono?” Chiese Dago.
A rispondergli un uomo appena entrato nella tenda.
“In salvo, giannizzero. Ma prima di tutto, permettimi di presentarmi, sono il dragomanno Etaruk, in viaggio da Smirne ad Algeri. Uno dei nostri esploratori ti ha trovato vicino la pista delle carovane.”
Dago prese una ciotola piena d’acqua e bevve avidamente. Cercò di essere credibile, dato che l’avevano scambiato per un giannizzero del sultano. Ma se la meta della carovana era Algeri, doveva inventarsi qualche cosa.
“Sono in missione segreta, non posso andare ad Algeri. Se mi vendi un cavallo, riparto subito.”
“Impossibile, ne ho troppo pochi, dovrai comprarne uno ad Algeri. A meno che non abbia un ragione particolare per non andare là.” Il dragomanno uscì dalla tenda con mille dubbi.
Un giannizzero mezzo morto in mezzo al deserto. In missione segreta? E non voleva andare ad Algeri quando era l’unica città per centinaia e centinaia di chilometri. Si, indossava l’uniforme dei giannizzeri, ma era europeo e per di più pieno di cicatrici. Prese subito una decisione e chiamò un uomo fidato.
“Hamil, quando saremo nei pressi di Algeri, tu andrai avanti e parlerai con i soldati della guarnigione. Dirai loro cosa abbiamo trovato e prenderanno una decisione.”
Dago immaginava che il suo racconto fosse poco credibile. Non poteva proseguire il cammino con la carovana di Etaruk. Quella stessa notte si rivestì usando ancora l’uniforme da giannizzero, rubò uno dei cavalli e si lasciò dietro di se la carovana. Era molto vicino ad Algeri, non poteva far altro che entrare in città e prendere la prima galera in partenza dal porto.
Algeri era il principale porto di quella parte del mediterraneo e brulicava di gente. Dago poteva muoversi indisturbato anche se doveva disfarsi in fretta di quella scomoda uniforme se non voleva essere fatto prigioniero. Etaruk, pensò, aveva già avvertito la guarnigione e non c’era tempo da perdere. Il mercato era il posto migliore per passare inosservato, ma alcuni soldati turchi in compagnia di Hamil già erano alla sua ricerca e lo scorsero immediatemente. Hamil lo indicò gridando e al veneziano non restò altro che darsi alla fuga fra i banchi del mercato. Non fu facile seminare i soldati, ma le stradine di Algeri fornivano nascondigli ovunque. Superò di slancio un muro e si ritrovò in uno splendido giardino in cui rimase fino a notte fonda.
A comandare il distaccamento di giannizzeri ad Algeri era il Visir Jemal Amurian, infuriato per la mancata cattura del falso soldato. Jemal incaricò il fedele servitore di colore Aberradam di catturare il fuggiasco che si era rivelato così abile da fuggire da Ghardaia ed eludere la cattura.
Non c’era amicizia fra Jemal e Aberradam. Il secondo di Jemal era un favorito di Barbarossa e destinato a sostituire Jemal che nutriva un forte rancore per Aberradam. Si sopportavano a vicenda.
“A te, Aberradam. Se sei tanto abile come dicono, non avrai problemi a riportarmi la testa di questo falso giannizzero.”
Abedarram sapeva che Jemal gli stava tendendo una trappola. Se non fosse riuscito nell’intento, l’avrebbe mandato in miniera con le orecchie tagliate. Non commentò la decisione di Jemal.
“Lo prenderò, signore.” Rispose freddamente.
Nel frattempo Dago si era liberato degli abiti militari e li aveva sepolti in spiaggia dopo aver rubato i vestiti presso una casa di poveri pescatori. Voleva e doveva abbandonare Algeri. Ma per farlo, aveva bisogno di una nave. Cominciò la ricerca al porto, ma ancora una volta non fu fortunato. Troppo rumore aveva suscitato la sua fuga e tutti stavano all’erta. Il Visir Amurian non tollerava chi collaborava con i ladri e i truffatori. Un europeo, poi, difficilmente passava inosservato. Qualcuno l’aveva visto mentre rubava gli abiti da pescatore e da una galera, un marinaio gridò al suo indirizzo. “Eccolo, il maledetto. Prendetelo.” Dago si voltò, ma il marinaio gli era già addosso. Non per molto, Dago si liberò facilmente di lui e si diede di nuovo alla fuga. Ma il porto non con consentiva facili nascondigli. Dove andare? Intanto dietro di lui le grida dei soldati turchi. Riuscì a superare una palizzata e improvvisamente si ritrovò vicino un palazzo. Riconobbe la residenza del visir Amurian e ad un tratto una pazza idea gli esplose dentro. Superò il muro di cinta e rimase nascosto nella vegetazione che circondava il palazzo del visir. Sentì le voci dei giannizzeri passare oltre. Per il momento era salvo. Nessuno poteva pensare che si fosse rifugiato nella tana del lupo.
Un caldo tramonto. E come sempre, a quest’ora Jemal meditava su quanto fare per accrescere il suo potere. Il suo primo obiettivo era di liberarsi di Aberradam e poi cercare di offuscare il potere di Barbarossa. I suoi giannizzeri gli garantivano un grosso potere. Ma i suoi pensieri furono bruscamente interrotti da una lama nel buio che minacciava il suo collo. Dago era riuscito a penetrare nelle sue stanze.
“Chi sei, come osi minacciarmi?”
“Chi sono?” rispose Dago con un sorriso ironico sulle labbra. “Sono quel cane infedele del fuggiasco che i tuoi cani stanno cercando in tutti gli angoli di Algeri. Visto che eri tanto ansioso di conoscermi, ho deciso di onorarti di una mia visita. La sorveglianza del tuo palazzo lascia molto a desiderare, mio gran visir.”
“Tu sei pazzo, cosa credi di poter fare?”
“Riposare, mangiare e aspettare. Mi darai un salvacondotto per lasciare Algeri con la prima nave che salperà domani. E già che ci sei anche dell’oro. Altrimenti ti sgozzerò come un agnello.”
Amurian era un astuto calcolatore, ma peccava di coraggio. Non era un eroe e a Dago era bastato guardarlo per giudicare che tipo di uomo fosse.”
Amurian seguì alla lettera le indicazioni di Dago. Chiamò un servo per il cibo e scrisse immediatamente il salvacondotto per il veneziano. Dago non credeva ai suoi occhi. In pochi attimi la sua vita poteva cambiare. Era vicino alla libertà. Ma i suoi sogni furono ben presto interrotti. Abedarram non era uno stupido e aveva intuito subito dove si fosse rifugiato Dago. Aveva circondato l’intero quartiere vicino al porto e casa dopo casa, palazzo dopo palazzo, aveva ordinato ai suoi uomini di ispezionare ogni stanza, ogni buco. Ed era giunto alla conclusione che Dago poteva aver trovato rifugio solo nella lussuosa dimore del visir. Il servo che aveva portato il cibo, aveva poi confermato i suoi sospetti. Abedarram irruppe improvvisamente nelle stanze di Jemal e sorprese Dago che non ebbe il tempo di reagire. Lo schiavo fu colpito pesantamente alla testa e svenne. Il drappello di giannizzeri guidato da Abedarram in persona non fu l’unica sorpresa per Jemal. Barbarossa, allarmato dal trambusto, stava conducendo personalmente le operazioni alla ricerca del fuggiasco e si era unito al fido Abedarram. Il pirata notò il documento che era caduto dalle mani di Dago.
“Che cos’è questo?” Lo raccolse e lesse. “Mmm, Jemal, sei proprio un codardo. Questo salvacondotto dimostra la tua viltà. Ti ho concesso onori e ricchezze qui ad Algeri, ma evidentemente non erano sufficienti. Lo immaginavo e per questo ti avevo messo al fianco Abedarram. Per questo atto di slealtà non c’è che la morte. Portatelo via e giustiziatelo!”.
Così il Beylerbey aveva parlato. Non aveva riconosciuto quello schiavo a cui tempo fa aveva offerto il suo mantello per l’amico. Fra l’altro, anche se l’avesse riconosciuto, era pur sempre un semplice schiavo. Abedarram era ora il nuovo gran visir al comando dei giannizzeri ad Algeri. Dago fu condotto via per essere giustiziato all’alba alla prigione.
La prigione di Algeri era un luogo di disperazione e morte. Ogni giorno esecuzioni e frustate. Non era ancora sorto il sole, che i condannati a morte vennero radunati nel cortile. Di fronte a loro il boia con la grande scimitarra. Un ceppo, appena lavato, ma intriso ancora di sangue, attendeva le loro teste. A parlare il responsabile delle prigioni.
“Criminali…oggi riceverete il castigo meritato, la morte. Ma il nuovo Visir, il grande Aberradam ha deciso di far grazia della vita a uno di voi perché in questo giorno non manchi un segno della sua magnanimità. Secondo il volere di Allah. Qui ci sono nove pietre nere e una bianca. Colui che prenderà la pietra bianca, vivrà in schiavitù.”
Un soldato mise le pietre in una cesta e ad uno ad uno, i condannati a morte estrassero il loro destino. Quando fu il turno di Dago, il soldato, furtivamente, mise nella sua mano la pietra bianca. Dago non credeva ai propri occhi, non capiva, ma ancora una volta era salvo.
“Perché,” si chiedeva, “Perché.”
Il boia aveva cominciato il suo sporco lavoro. Mentre Dago veniva condotto via, le teste dei condannati a morte rotolavano sulla sabbia della prigione. Prima di entrare in cella, Dago era atteso da Abedarram.
“Ti chiedi perché, schiavo?. Grazie a te ho potuto disfarmi del mio peggior nemico ho ottenuto ricchezze e onori. Mi hai portato fortuna e io sono superstizioso. Preparati, sei sfuggito alla morte, ma ben presto raggiungerai la tua nuova destinazione. Non sarà affatto divertente. Addio”
La nuova meta di Dago era il deposito di polvere di Algeri. Gli schiavi dovevano occupparsi dei barili di polvere da sparo. Ogni gesto sbagliato avrebbe significato la loro condanna a morte. Oltre a ciò, qualsiasi atto di ribellione o qualsiasi movimento sbagliato sarebbe stato punito con la morte per impalamento, forse il modo più crudele di morire. Ecco consisteva in……….da approfondire.
Dago entrò in quel mondo da incubo, di eterno terrore, di respiri trattenuti e di gesti cauti. Ma se questo non bastava, la polvere da sparo minava anche la salute degli schiavi. Di notte, rinchiuso in una cella umida dove il letto era costituito da un semplice giaciglio di paglia, Dago tossiva e tossiva. Una tosse dolorosa e secca, i suoi polmoni stavano marcendo. Ormai era incrostata nel suo petto come un ragno di ferro. L’avevano avvertito. Non si reggeva molto alla polveriera. Doveva fuggire. Ma non riusciva a capire come. Forse dalle fogne, ma poi per Algeri aveva bisogno di oro per fuggire e corrompere qualcuno. Il veneziano decise di parlare ad Hafar, il responsabile della polveriera. Hafar fu quasi divertito dalla richiesta di Dago di farlo curare. Dago se l’aspettava, ma era un uomo disperato tenuto in vita soltanto dal suo desiderio di vendetta. Non poteva morire prima di assolvere quel macabro compito. Hafar per tutta risposta lo fece torturare dal fidato Bargos. Una punizione terribile. Legarono i piedi di Dago e Bargos li pestò a sangue con un bastone. Dago fu riportato nella sua cella fra atroci dolori. Era testardo, però. Non si arrendeva, non per salvarsi. Aveva degli uomini da uccidere. Doveva fuggire in qualche modo. Doveva pensare, pensare bene e trovare una soluzione. Doveva esserci una maniera di sfuggire all’incubo. L’occasione arrivò, inaspettatamente e casualmente. Dago era la lavoro nella polveriera in mezzo ai barili, ma era stato addestrato bene dall’amico Selim. Stava attento a tutto ciò che lo circondava. Uno schiavo doveva stare attento anche al volo di una mosca. Quel giorno notò quattro uomini piuttosto muscolosi con dei lacci di cuoio alla cintura. Non erano né schiavi né operai. Erano stati fatti entrare furtivamente dalla porta posteriore Dago li osservava non visto dietro i barili. Avvano chiuso le porte e le finestre, ad eccezione dell’entrata principale. Era molto strano, sembrava una trappola per qualcuno. Durante la pausa di pranzo, Dago chiese al compagno di cella se ci fosse qualche novità in vista.
“Certo che ci sono novità. Oggi avremo una visita importante.”
“E chi è? Allah,” rispose Dago con la sua solita ironia sferzante.”
“Quasi. Il Beylerbey in persona verrà a ispezionare la polveriera.”
Dago cominciò a sospettare. “Possibile che stessero preparando un’imboscata a Barbarossa per assassinarlo?”
Era indubbio che Barbarossa avesse molti nemici, Hafar era fra questi. Forse Dago sarebbe stato testimone dell’uccisione del terribile pirata. Certo, anche lui odiava il Beylerbey. Ma con lui presente non era un fatto positivo. Loro sarebbero stati sicuramente testimoni di un fatto del genere e tutti gli schiavi sarebbero stati con tutta probabilità eliminati. Non era questo il suo destino. Ancora una volta doveva trovare il modo di sopravvivere.
Barbarossa arrivò subito dopo mezzogiorno accompagnato da Hafar, che gli faceva da cicerone. C’erano pochi giannizzeri, d’altronde chi poteva immaginare che potesse accadere qualche cosa? Dago si trovava proprio nel locale principale della polveriera. Barbarossa precedeva il piccolo corteo in visita. Bagos, il fedele di Hafar, al suo fianco. Proprio Hafar, con una semplice scusa, si era allontanato dal gruppo, adducendo un lieve malore. Al passaggio di Barbarossa, Dago versò della polvere da sparo sui suoi stivali, simulando un movimento incauto. Barbarossa si fermò ad osservarlo e lo assalì verbalmente
“Maledetto schiavo incapace! Meriteresti la morte per questo.”
Dago, con tono ossequioso, cerco di ripulire lo stivale del Beylerbey.
“Perdonami, illustre signore, provvedo subito a pulirti.”
Poi la sua voce divenne un sussurro.
“Attento, dietro di te, questa è una trappola.” Barbarossa sembrò non capire ma era un uomo astuto e attento. Gli bastò un’occhiata per capire tutto. Dago gli porse di nascosto un bastone appuntito
“Bagos, gridò, voglio che questo miserabile schiavo riceva venti sferzate. Hai capito?”
“Si, signore, ora io stesso provvede.”
“Bravo, riceverai una ricompensa.”
“Per così poco? Non merito tanto.”
Barbarossa non gli fece nemmeno finire la frase e gli piantò il bastone in pieno cuore, uccidendolo sul colpo. I quattro strangolatori non persero tempo. Barbarossa, fiero guerriero ne stese subito uno, ma improvvisamente si ritrovò i lacci al collo. Una presa infernale lo stava per uccidere. Intanto Dago aveva eliminato il terzo assassino spaccandogli in testa un barilotto di polvere. Ora erano due contro due. Ma Barbarossa stava soccombendo e Dago lo salvò, conficcando nella schiena dello strangolatore un altro picchetto di legno. Non si era curato dell’ultimo assassino sopravvissuto, che lo stordì con un pugno alla testa. Barbarossa era ormai salvo e ci pensò lui a eliminare l’ultimo strangolatore. Cinque corpi giacevano a terra. Privi di vita. Dago e Barbarossa, malconci, ma vivi, si guardarono intorno.
“E così ti devo la vita, cristiano. Ora chiamo le mie guardie e…..”
Non lo fare, non puoi fidarti di loro. Non sia quanti fossero nel complotto. Devi fuggire sa un’altra via.”
“Mostrami la strada”
“Te la mostrerei con piacere, ma vedi, cammino a stento a causa delle ultime torture. Dovri portarmi.”
“Io, portare te? Dimentichi con chi stai parlando?”
“Con un idiota pedante che presto sarà morto, se continua a pensare alla sua inutile dignità.”
Dago e il suo sarcasmo fecero riflettere il Beylerbey.
“Bel discorso, schiavo. Hai ragione. Ed ora sbrighiamoci. Forse sono un idiota, ma voglio continuare a rimaner vivo.”
I due si allontanarono furtivamente dalla polveriera. Non potevano passare per l’accesso principale e Dago decise di passare per la cloaca, direttamente collegata alla polveriera e abbastanza larga per consentire la fuga ai due uomini. Barbarossa si era caricato a spalle Dago e doveva sopportare pure l’odore sgradevole della fogna.
“Maledetta sfortuna! Non potevo farmi salvare da uno schiavo più magro? Pesi come un bue!”
“Ringrazia il cielo. Eccelso signore. Meglio avere sulla schiena le mie chiappe che un coltello!”
I due raggiunsero finalmente la strada e Beylerbey potè allertare la sua guardia. Hafar fu subito tratto in arresto con altri complottatori e Dago fu condotto nelle stanze reali, per essere curato e rifocillato.
Dago fu disteso lungo un comodo lettino e giunsero i medici. Barbarossa, dopo aver condotto personalmente la cattura dei suoi nemici, lo andò a trovare.
“ Ti devo la vita e so pagare i miei debiti. Questo giorno ha cambiato il mio destino”
“Certo, rispose sorridendo Dago, anche la mia vita è cambiata. Da oggi potrò vantarmi del fatto che il grande barbarossa mi è servito da cavalcatura”.
“Credo che andremo d’accordo, Dago. Sempre che non ti faccia tagliare quella lingua insolente. Riposa ora. Devo andare a fare giustizia”
Dago era entrato nel palazzo principale di Algeri. Con addosso ancora l’odore di schiavo e violenza, ma si sentiva più vivo che mai. La sua sete di vendetta l’aveva ancora una volta ben consigliato. La furia che lo alimentava, era intatta.
Trascorse qualche giorno. Algeri aveva conosciuto la furia del Barbarossa. Hafar e tutti coloro collegati al capo della polveriera furono giustiziati. Dago era ancora ospite a palazzo, esi stava riprendendo velocemente. Vestiva ora nuovi abiti, eleganti, quasi da principe. Barbarossa gli dimostrava tutta la sua riconoscenza. Ma il pirata non si fidava. Raccolse quante più informazioni su quel misterioso schiavo e i suoi timori su Dago aumentarono. Il veneziano era alle prese con un dottore, quando il Beylerbey entrò nella stanza.
“Dago, ti devo la vita e tutti sanno che Barbarossa conosce la gratitudine. Ma allo stesso tempo sei un grave problema. Non sei solo un volgare schiavo. Ho saputo che sei stato alle dipendenze di Hussein Bey, il mio nemico. Mi è giunta voce che l’hai addirittura salvato. Per non parlare di Orbashà……”
“Uno schiavo non deve lealtà che a se stesso. Non rinnego nulla, erano miei amici.”
“Bah, in tutti i modi sono in debito con te, ma chi aiuta i miei nemici gioca con la morte.”
“Già, ma non sono stato mica io a volere la tua morte!”
“Basta con filosofia. Ti faccio grazia della libertà, ma non posso nemmeno mandarti in giro a raccontare tutto quello che sai su di me e i miei eserciti. Ecco, ti manderò a servire il sultano a Costantinopoli.”
“Il sultano? Molto astuto, così mi farai diventare un rinnegato e non potrò tornare al mio paese.”
“L’alternativa è farti giustiziare come traditore”
Dago rimase in silenzio. Era costretto a servire il sultano. Non aveva alternative. Il colloquio fra i due fu interrotto da un servitore.
“Signore, il nobile Kalandrakis è arrivato”
Dago impallidì. Un lampo gli attraversò il viso. Kalandrakis, uno dei bastardi che avevano distrutto la sua famiglia. Subito la rabbia s’impadronì del veneziano e la sua mente cominciò a progettare come assassinare il levantino.
Kalandrakis il greco era personaggio importante ad Algeri. Informava Barbarossa su Venezia, soprattutto sulle flotte e gli armamenti. Abile banchiere, aveva credito in tutta Europa e Beylerbey lo teneva in grande considerazione. Per Dago sarebbe stato difficile eliminarlo. Dago si teneva nascosto nelle sue stanze anche se Kalandrakis non lo conosceva. Decise di agire quella notte stessa. Aveva pensato un piano folle, ma proprio perché tanto folle aveva probabilità di riuscita. Fece pervenire a Kalandrakis tramite il suo servo fedelissimo un documento in cui chiedeva il suo intervento per un lavoro delicato da fare a Venezia. Questo lavoretto sarebbe stato generosamente ricompensato. Il luogo dell’appuntamento era presso i giardini del palazzo, che facevano da contorno a una grande piscina. Kalandrakis, spinto dalla sua avidità, andò all’appuntamento, sicuro di sé e senza sospettare nulla. Una luna giallastra illuminava la superficie dell’acqua. Kalandrakis era in orario, ma il suo misterioso interlocutore tardava. Ma non dovette aspettare più di tanto. Una voce alle sue spalle, proveniente dall’acqua sussurrò il suo nome.
“Salve Kalandrakis, salve assassino.”
L’uomo si voltò di scatto, e sentì le forti braccia di Dago prenderlo al polpaccio. Kalandrakis finì in acqua. Non capiva, chi era quell’uomo che l’aveva assalito? Dago lo teneva saldamente. Nell’altro mano il coltello.
“Tu chi sei? Come osi?”
“Sforza la memoria, mio buon levantino. Torna indietro di qualche anno. Ti dice niente il nome di Marco Dandolo?”
“Si, una famiglia di Venezia massacrata. L’unico cadavere che non è stato ritrovato è stato quello di……no, non puoi essere Marco Dandolo. E’ morto!”
“In questo hai ragione, Kalandrakis. Quello che hai davanti non è più Marco Dandolo, ma Dago lo schiavo alle cui domande risponderai in fretta. Dimmi, cosa è successo dopo lo sterminio della mia famiglia?”
Kalandrakis era terrorizzato. In balìa di Dago e fissava il lungo coltello
“Si sono trovate delle lettere che attestavano la complicità di tuo padre con il sultano. Lettere false naturalmente.”
“ E dove sono i tuoi complici?”
“Ahmed Bey è tornato a Costantinopoli, il principe Grimani è ora Doge. Quanto a Leonardo Caravelli…si è impossessato della fortuna dei Dandolo spartendola con Grimani.”
“Si è sposato?”
“Si, con Ortensia Morosini”
Dago aveva perso tutto. Ora veramente gli restava solo la vendetta. La mattina seguente Kalandrakis fu trovato cadavere. Sulla sue fronte una scritta incisa con il coltello: Dandolo. Barbarossa non capiva. Il servo del levantino non proferì parola. Forse aveva intuito, ma preferì non dire nulla a Barbarossa. A osservare dall’alto la scena ai bordi della piscina, Dago, che si teneva dietro una tenda, per evitare di essere visto dal servitore del greco. Il suo sguardo era gelido e penetrante. Il servo ebbe un sussulto. La sua schiena fu attraversata da un brivido. Uno strano senso di paura lo colse. Alzò improvvisamente lo sguardo, ma non vide nessuno. Dago aveva iniziato la sua vendetta.
L’indomani il veneziano salpò per Costantinopoli. Il viaggio fu lungo. Mare, tanto mare. Ma la città turca fu come una visione per i suoi occhi. Rimase senza parole. Lui, l’uomo più misterioso e sinistro del creato, fissava quella visione da sogno che era Costantinopoli.
Descrizione di Costantinopoli con quello che rappresentava all’epoca.
Dago doveva presentarsi dal Gran Visir Ibrahim, braccio destro del sultano. Una delle persone più potenti e crudeli dell’impero. Descrizione di Ibrahim.
Il rinnegato cristiano fu condotto nella residenza del Gran Visir. Una lettera del Barbarossa inviata al gran visir traboccava di elogi. Ibrahim chiese a Dago perché, dato che era considerato tanto speciale, Barbarossa se ne fosse privato.
“Non capisco, tanto bravo e allontanato da Algeri?”
“Il Beylerbey mi teme. Non sapeva se uccidermi o allontanarmi e mi doveva la vita”
“Sempre più affascinante. Il grande Barbarossa, terrore dei cristianità, ti teme. Mi sembra assurdo, non ti pare?”
Dago si chinò a raccogliere qualche cosa in terra
“Hai mai visto ragni velenosi in questo palazzo?”
Non finì la frase e gettò quello che aveva preso contro Ibrahim che ebbe un sobbalzo e gridò.
“No, il ragno……ma…….. è solo un po’ di terra….ti burli di me?”
“No, ma pensa. Tu, Ibrahim, l’uomo più potente dell’impero ottomano, ti sei spaventato per un pugno di terra. Assurdo, vero? Io ero terra di fronte a Barbarossa, ma lui ha temuto che fossi un ragno velenoso e non ha voluto rischiare. Logico, no?”
Dago si allontanò e ritornò negli alloggi provvisori all’interno del palazzo del Gran Visir che gli erano stati assegnati. Ibrahim chiamò un consigliere a cui fece una precisa richiesta. “ Voglio che il rinnegato cristiano entri nella mia guardia personale di giannizzeri fin d’ora. Voglio sapere se è terra o ragno.”
I giannizzeri. Dago ne aveva incontrati diversi negli ultimi anni e ora ne avrebbe fatto parte.
L’addestramento dei giannizzeri avveniva in un clima di rigida disciplina. I ragazzi erano sottoposti a grandi fatiche in strutture scolastiche estremamente spartane ed erano per questo chiamati acemi oglan (scolari stranieri). Obbligati a rispettare il celibato, così da non avere alcuna remora sul campo di battaglia, i giannizzeri erano forzatamente incoraggiati alla conversione all’Islam Lo scopo di tale addestramento era la costituzione di una compagine militare professionistica obbligata alla lealtà, dietro vincolo di schiavitù; il Sultano era considerato padre di ogni soldato.
Conducevano una vita monastica e isolata. Erano un vero e proprio ordine cavalleresco
In cambio della loro lealtà e del loro fervore in guerra i giannizzeri guadagnarono molti benefici.
Ecco, Dago sarebbe diventato uno dei giannizzeri del Gran Visir in persona, ma doveva rinnegare la sua religione. Ora per tutti era il rinnegato.
Fin dall’inizio Dago rifiutò di mischiarsi con gli altri giannizzeri. Non parlava, non si univa ai gruppi. Passava ore a guardare il vuoto, perso in pensieri tormentati e segreti. Nel cortile delle armi si guadagnò in fretta il rispetto o la paura dei compagni. Era più odiato che amato, ma era dannatamente abile e bravo. Nei primi mesi presso il Gran Visir, Dago ebbe modo di mettersi in mostra, dimostrando una lealtà insuperabile. Ibrahim sapeva che il rinnegato era un personaggio scomodo, ma vedeva in lui anche l’incorruttibile che avrebbe potuto salvarlo e garantirlo in più di un’occasione. E aveva ragione. Il braccio destro di Solimano era in aperto contrasto con la favorita del Sultano, Roxelana. Donna di origini ucraine finita nell’harem e diventata la favorita. Addirittura
divenne moglie legale ufficiale del sultano, facendo di Solimano il primo imperatore ottomano ad essersi sposato. Questo rafforzò la propria posizione nel palazzo fino a farla diventare uno dei personaggi più autorevoli a Costantinopoli e a porla come principale avversario di Ibrahim nella corsa al potere. In questo scenario Dago si trovò direttamente coinvolto, in quanto fu subito notato dalla bella Roxelana. Quell’uomo, così temibile e spietato poteva essere lo strumento per disfarsi di Ibrahim. Ma Dago, fedele al Gran Visir, non stette al gioco ed eliminò i cospiratori. Roxelana non era nella lista, ma fu chiaro a tutti chi era a capo del complotto. Ora anche Dago era fra gli acerrimi nemici della moglie del Sultano. Il rinnegato era ormai a pieno titolo nei giannizzeri d’oro di Costantinopoli. Certo non era ben visto dai suoi compagni, ma si faceva rispettare. Era sempre trincerato nel proprio ostile silenzio, nel disprezzo glaciale. In lui c’era una brutalità che superava perfino i sogni dei giannizzeri. La sua divisa era completamente nera. Indossava un mantello bianco con un turbante nero sormontato da una punta di metallo tipica del corpo dei giannizzeri. Alla vita una vistosa fascia rossa in cui era inserita la sua daga, amica inseparabile. Una scimitarra completava il suo armamento.
La dura attività di allenamento quotidiana che Dago e i giannizzeri sostenevano, fu interrotta dalla notizia della guerra imminente. Si, il Sultano voleva la guerra. I paesi cristiani limitrofi erano l’obiettivo per poi arrivare fino a Vienna. Solimano cercava la gloria e sognava battaglie. Il suo esercito immenso poteva garantirgli i suoi obiettivi. Il gran visir Ibrahim non era contento di tutto ciò. La guerra portava solo sprechi, morti, dolore e caos. Per di più Roxelana ordiva intrighi per guadagnare il potere. Ma Solimano era inamovibile. Ibrahim cominciò i preparativi per l’avanzata verso Occidente. Povero Ibrahim, la sua amicizia con Solimano gli aveva garantito un’immensa ricchezza e potere, ma spesso non condivideva le mire del suo sultano. Ma l’amicizia era talmente grande, che cercava in tutti i modi di soddisfarlo. Conosceva Solimano fin da piccolo e non sarebbe mai stato capace di deluderlo.
Il Gran Visir era greco di nascita, nato nella città di Parga. Venne venduto come schiavo, all’età di sei anni, per essere impiegato a lavorare nel futuro palazzo del Sultano ottomano, padre di Solimano. Lì fece amicizia con Solimano (figlio del sultano), che aveva la sua stessa età, e pian piano scalò i gradi della scala gerarchica nel palazzo, divenendo falconiere del sultano. Le sue promozioni furono così veloci che ad un certo punto chiese al sultano di non promuoverlo troppo spesso per evitare gelosie negli altri dipendenti. Impressionato dalla sua modestia, Solimano gli giurò che non sarebbe mai stato messo a morte durante il suo regno. Dopo essere stato nominato Gran Visir, continuò a ricevere molti regali dal sultano, ed il suo potere fu assoluto. Fra i molti titoli, era anche ufficiosamente noto come “il più bell’uomo dell’impero.” Sposò anche la sorella di Solimano. Ibrahim Pascià si fece costruire il più bel palazzo di Costantinopoli, una costruzione fatta soprattutto per difendersi dai suoi numerosi nemici. Era un maestro della diplomazia, e le guerre non gli piacevano le guerre. Tutti gli stati europei gli riconoscevano questa dote e lo chiamavano Ibrahim il magnifico. Un servo del sultano, ma soprattutto un amico di cui ciecamente fidarsi. E Solimano lo sapeva bene. La spedizione militare non andò molto bene. L’inverno era alle porte e ben presto, la facile avanzata dell’esercito turco fu pesantemente rallentata dalle intemperie e dal terreno prima reso fangoso dalle piogge e poi coperto dalla neve. La gloriosa spedizione che doveva portare alla conquista di Vienna si fermò quasi subito. Dago con i giannizzeri e tutto l’esercito turco tornarono dopo pochi mesi.
Il rinnegato si presentò direttamente al Gran Visir. Ibrahim lo stimava molto. L’incorruttibilità di Dago era nota in tutto l’impero. Voleva che il giannizzero nero diventasse il suo braccio destro. Gli offrì titoli e denaro che l’avrebbero reso uno degli uomini più potenti a Costantinopoli. Dago inizialmente non accettò. Era orgoglioso con il cuore di un carnefice e non gli importava nulla di privilegi e ricchezze. Questo il Gran Visir lo sapeva bene. Ma era onesto, non avido. Merce rara nell’impero dei mille complotti. Ma Ibrahim Pascià non si fermava di fronte a nulla. Tanto meno a un diniego del fido Dago. Era maestro nel preparare trappole per il raggiungimento dell’obiettivo. Fece così anche con il rinnegato.
Preparare paragrafo per il convincimento di Dago
Il Gran Visir lo inviò per i vasti possedimenti del suo impero. Dago portava il sigillo imperiale al dito, oggetto che gli dava diritto di vita e di morte su tutti i sudditi di Solimano. Il rinnegato iniziò così il suo lungo viaggio. Un anno dopo Dago tornò a Costantinopoli. Innumerevoli le sue gesta.
Inserire brevi flash con i personaggi incontrati
Cercò di portare giustizia, eliminare i signorotti locali, e la sua fama crebbe a dismisura. Il giannizzero nero, il rinnegato era diventato famoso in tutto l’impero per la sua onestà e forza.
Il Gran Visir lo attendeva nell’ampio salone dei ricevimenti del suo palazzo. Ibrahim alzò lentamente il capo verso quella figura nera, sempre terribile.
“Dago, sei tornato. Sono lieto di vederti.”
“Non lo credo, Visir. Ma non vale la pena di discuterne. Sono tornato e basta. Missione compiuta. Ecco, ti restituisco il tuo sigillo. Non mi serve più. “
Si voltò e se ne andò, senza degnare di uno sguardo Ibrahim Pascià.
Nelle settimane che seguirono, Dago trascorse ore al porto. Silenzioso e lugubre, guardava quel bosco di sartìe e fiutava il profumo delle spezie e dei mondi che c’erano al di là delle acque. Venezia su tutte. Si sentiva soffocato, a corte Roxelana lo voleva morto e non era ben visto dagli altri giannizzeri. Prima o poi l’avrebbero ucciso. Ma aveva ancora dei conti da saldare a Venezia. Una sera, tornando alla casa che aveva potuto permettersi grazie ai favori del Visir, uno dei servi al suo servizio lo informò che una persona lo stava attendendo.
“Benvenuto, Padrone. Il nobile signore ti aspetta.”
“Il nobile signore? Di chi parli?”
Dago attraversò velocemente la sua casa e nel salone, ad occupare la sua poltrona favorita, c’era lui, il vecchio nemico amico di Barbarossa.
“Ah Dago, impagabile piacere rivederti. Sei sempre magro e duro. E con tutto questo nero,ancora più sinistro. Non hai ancora scoperto il piacere di sorridere?”
“Tu, Khaireddin, una vera sorpresa…….però non se è gradevole. Cosa vuoi?”
Bevi una coppa di vino e piantala di essere scortese. La tua orrenda personalità non migliora eh? Ho bisogno di te, semplicemente, ad Algeri.”
Dago non esitò un attimo. Poteva allontanarsi dalla soffocante Costantinopoli.
“Quando si parte?”
“Appena la mia galera è carica di rifornimenti.” Il Beylerbey non credeva ai suoi occhi. Il rinnegato aveva subito accettato.
Dago fu ricevuto con tutti gli onori ad Algeri. Amico personale di Barbarossa, era altrettanto rispettato e temuto. Come erano cambiate le cose dall’ultima volta. Era uno schiavo, ora un uomo ricco, giannizzero d’oro e ospite d’onore ad Algeri. Ancora non era a conoscenza dei piani che Barbarossa aveva per lui. Sapeva che si preparava una guerra. Il porto era pieno di navi da guerra. La flotta più grande del mondo si preparava a salpare alla volta delle coste cristiane per devastarle e saccheggiarle. Ma non pensava che si sarebbe unito alla guerra. Trascorse qualche giorno e Barbarossa lo mandò a chiamare.
“Ho una missione per te.”
“Sapevo che tramavi qualche cosa. Finalmente ora saprò.”
Barbarossa lo accompagnò nei sotterranei del suo palazzo. C’erano molte segrete. I due si fermarono di fronte a una di queste, guardata a vista da due guardie e chiusa con un pesante portone di ferro. Barbarossa aprì personalmente la segreta e ne mostrò il contenuto a Dago.
“Guarda, dovrai fare in modo che questo oro giunga a destinazione.”
Di fronte a loro vari forzieri pieni di monete d’oro.
“E’ un tesoro immenso. Dove deve andare’”
“Nelle mani di Francesco I di Francia.”
Dago ebbe un sussulto.
“Allora è vero che tu e lui avete firmato un’alleanza segreta.”
“No, lui e il sultano. Ora il nostro nemico si chiama Carlo V di Spagna. Francesco è in guerra con lui. E’ un uomo mica male. Realista, astuto. A differenza dello spagnolo, fanatico religioso e con un sogno imperiale. Non si può trattare con lui”
“Ti fidi di Francesco”
“Assolutamente no! E’ capacissimo di tenersi l’oro e di far decapitare i miei inviati.”
“Ehi, il tuo inviato pare che sarò io.”
“Appunto. Dovrai trovare un modo per garantirti la vita e l’uso corretto dell’oro. Come vedi un’impresa degna del tuo talento, mio buon rinnegato.”
“mmmm ha l’aria di un suicidio”
“Non essere retorico. Sei sopravvissuto a tanto, vuoi non sopravvivere a un semplice re francese?”
Dago nutriva molti dubbi sulla sua missione. Il Beylerbey lo mandava a farsi ammazzare. Lo attendeva la morte o il fallimento. Che bastardo. Ancora una volta lo aveva beffato. Ma non c’era tempo per i rimpianti. Aveva voluto lasciare Costantinopoli. Si era fidato di quel pirata e ora era in ballo. Quella stessa notte, una galera fu caricata di nascosto. Un gruppo fidato di giannizzeri accompagnava il rinnegato. La Francia li aspettava.
A sette anni, Solimano fu mandato a studiare scienze, storia, letteratura, teologia, e tecniche militari nelle scuole del Palazzo di Istanbul e già da giovane iniziò e mantenne una stretta amicizia con Pargali Ibrahim Pascià, uno schiavo che sarebbe diventato uno dei suoi più seguiti consiglieri. Le prime esperienze di governo di Solimano furono quelle di governatore di svariate province, le più importanti Bolu nell’Anatolia del nord e, nel 1509, la terra natale della madre, Caffa, in Crimea, già colonia genovese e porto strategico per il commercio degli schiavi prelevati dalle steppe russe per essere inoltrati verso l’Egitto mamelucco. Tre anni dopo si era trasferito a Magnesia, dove ancora si trovava quando salì al trono.
Agli inizi del regno di Solimano, Istanbul contava 400.000 abitanti, e alla fine del XVI secolo erano quasi raddoppiati (700.000). In Europa occidentale nessuna città raggiungeva la stessa popolazione, Londra ne contava 120.000 e Parigi circa un terzo. La città era ingrandita da un afflusso ininterrotto di popolazioni che vi si insediavano sia volontariamente sia perché portate dai sultani che sceglievano nei territori di nuova conquista i migliori operai e artigiani per abbellire la propria capitale.
Per imporre i propri diritti, Solimano dovette combattere contro un’infinita serie di avversari. La forza del suo sultanato era basata sulla funzione cruciale del corpo di fanteria dei Giannizzeri (dal turco yeni çeri, “Nuova truppa”). Questi venivano reclutati forzatamente fra i giovani cristiani, obbligati nei primi secoli del sultanato al celibato, affratellati dalla tradizionale aderenza a una stessa confraternita religiosa che era la Bektashiyya. I Giannizzeri, considerati l’élite dell’esercito ottomano, non potevano avere altra occupazione o fonte di reddito che non fossero quelle derivanti dal mestiere delle armi e la loro inattività in tempo di pace faceva aumentare i rischi di disordini. La necessità di tenere occupati i Giannizzeri può aiutare a comprendere il perché della frequenza delle campagne militari ottomane e anche la prima decade del regno di Solimano fu di conseguenza un periodo di intensa attività bellica.
Protagonista per eccellenza della dinastia che, conquistando Costantinopoli, l’aveva resa per molti versi erede dell’impero bizantino, Solimano fu conquistatore di nuove terre, amministratore di immensi possedimenti, innovatore nel campo della giurisprudenza (il laqab turco era infatti Qānūnī, ossia “Legislatore”), patrono delle arti e poeta lui stesso, Solimano meritò l’appellativo di Magnifico, attribuitogli dai grandi sovrani occidentali.
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