Mauro Faina's blog

School Adventures

Ritorno a Costantinopoli

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Finisce la prima parte delle avventure di Marco Dandolo /Dago .  Sarà una trilogia, che comprenderà circa 60 anni del Rinascimento. Ora le tappe principali sono più chiare. Ho concluso la prima parte con l’avventura in Abissinia. Riprenderò dal tentativo di Roxolana di uccidere Dago. Poi procederò con le avventure di Barbarossa e lo stesso Dago. Ci saranno le scorrerie dei pirati berberi nel mediterraneo, l’inquisizione. La fuga di Dago nel sudamerica. Al ritorno di nuovo con Barbarossa e il suo luogotenente Dragut. Non prima di aver ammazzato Grimani. Leonardo sopravviverà per tutta la saga, fino all’epilogo con la battaglia di Lepanto, in cui Dago rientrerà a Venezia e potrà ristabilire il nome della sua famiglia.

Ritorno a Costantinopoli.

 

Un’altra guerra. Un’altra spedizione. Il Gran Visir Ibrahim non aveva pace. Solimano voleva la gloria e la conquista di Vienna, l’ultimo baluardo a difesa dell’Europa. Per di più era tornato a combattere l’impalatore. Gli avevano assicurato che fosse morto. Quel maledetto Vlad Tepes dei Carpazi era stato seppellito. La sua testa portata a corte. Come era possibile? Nessuno sapeva spiegarlo. Il conte era ricomparso e aveva sterminato parecchi avamposti turchi. Un demonio, era una belva che risorgeva ogni volta dalle ceneri. Costituiva un autentico incubo per Ibrahim. Storie sinistre si mormoravano su di lui. Fra tutte quella che si nutrisse del sangue e della carne dei suoi nemici e che fosse immortale. Le genti della Valacchia giuravano che non potesse morire. Vlad Tepes chiamato Dracula, che in rumeno significava figlio del drago. Il Gran Visir non ne poteva più di sentire storie e leggende su Vlad. Per lui era solo un sanguinario che si opponeva all’avanzata turca. La Valacchia era indispensabile quale avamposto da cui sferrare l’attacco finale a Vienna. Doveva preparare un nuovo esercito, fatto di giannizzeri scelti, artiglieria e cavalleria. Era pericoloso Dracul. Il Gran Visir aveva paura che potesse diventare il capo di una vera ribellione, come lo era stato Iskander Bey, l’albanese che alcuni chiamavano Scanderberg. Era ora di farla finita con Vlad Tepes. Mentre a Costantinopoli fervevano i preparativi per la nuova guerra, Dago aveva lasciato Roma e aveva bisogno di una nave per tornare a Costantinopoli. In Spagna gli davano la caccia. Francesco I non l’aveva mai amato particolarmente, soprattutto per la sua irriverenza. Certo, il rinnegato aveva cercato di salvarlo, ma rimaneva un uomo scomodo e pericoloso. Nessun re l’avrebbe voluto vicino perché la sua sola presenza lo avrebbe potuto oscurare. Questo non piaceva agli uomini di potere. L’Italia era ormai un unico campo di battaglia. Eserciti stranieri calpestavano lo stivale italico. Milano, Firenze, Venezia si schieravano dove convenisse. Le alleanze duravano lo spazio di una battaglia. Forse sarebbe potuto tornare ad Algeri, ma a Barbarossa, il suo amico nemico, non piaceva averlo fra i piedi. Dago non si tratteneva mai dal criticarlo e tale fatto lo avrebbe messo in cattiva luce di fronte ai suoi sudditi. Costantinopoli era l’unica metà possibile, là aveva una casa con dei servitori. Certo, era pur sempre un cristiano rinnegato, ma stimato dal Gran Visir per la sua fedeltà. Fra l’altro l’aveva salvato anche dai progetti assassini di Roxelana. L’occasione di salpare per le coste ottomane gli si presentò a Napoli.

 

Inserire un’analisi del porto e verificare le rotte navali che condurranno Dago a Costantinopoli.

 

Ecco, di nuovo a Costantinopoli. Non era cambiata la grande città. Inserire breve descrizione

 

Il Gran Visir stava raschiando la penna sulla pergamena nell’immenso salone vuoto. I raggi del sole mattutino illuminavano il suo mantello rosso. Una rosa rosso sangue sul comodino. Lo sguardo assorto, come sempre, quando doveva pianificare e soddisfare i voleri del sultano e amico Solimano. La sua mano smise di scrivere. Dei passi felpati e controllati gli fecero sollevare il capo. Di fronte a lui, il giannizzero nero, l’angelo della morte. Era tornato. Inquietante come sempre. Mantello e divisa nera, la dago infilata nella fascia rossa che gli contornava la vita. Un turbante sormontato da una punta frontale e quello sguardo senza sentimento, freddo e cinico.

“Non mi sorprende che tu sia tornato, Dago. Sembri indistruttibile. Pensavo ti fossi perso nelle pianure europee o morto in una delle tante battaglie. So che hai svolto con efficacia la missione presso il re Francesco.”

“Indistruttibile?  Può darsi, sono le mie vendette non compiute a spingermi.” Piuttosto, non hai un gran bell’aspetto. Sembri molto preoccupato.”

“Governare e cercare di soddisfare il sultano è un suicidio. Tutti stanno in agguato. Le gelosie di corte sono all’ordine del giorno, avidità e ambizione ovunque. Guidare questo impero logora e molto.

“Ah, ma è il tuo destino, caro Visir. Immagino che finirai assassinato o decapitato. Ma questo è il prezzo della gloria.” E’ stata una tua scelta.”

Il Gran Visir lo osservò. Lo odiava per la sua schiettezza. Ma ammirava quell’uomo senza padrone, senza obblighi se non verso la sua vendetta. Sprezzante nei confronti dei potenti. E, soprattutto, leale. Incorruttibile. Una qualità difficile da trovare a Costantinopoli. Aveva bisogno di quell’uomo per la nuova spedizione che avrebbe dovuto condurre l’esercito turco alla presa di Vienna. Questa volta il Gran Visir aveva preso ogni precauzione possibile. Aveva stretto alleanze e trattati che gli avrebbero permesso di raggiungere Vienna e farne un avamposto turco per la definitiva conquista dell’Europa orientale. Si giocava tutto su Vienna che non poteva contare sull’aiuto di Carlo V, impegnato in Italia e Spagna. Francesco I non aveva la forza per opporsi a Solimano. Tutti erano occupatissimi a cospirare e tradirsi. Vienna poteva cadere per le meschini ambizioni dei potenti d’Europa. La guarnigione a Vienna era guidata da

 

Inserire ampio paragrafo sull’assedio di Vienna del 1529

 

L’esercito turco senza incontrare resistenza, raggiunse Vienna in breve tempo e la cinse d’assedio. Il Gran Visir in persona guidava la macchina da guerra di Solimano. Al suo fianco il giannizzero nero, il rinnegato Dago.

 

Decrivere i problemi dell’assedio

 

Dago osservava il campo turco seduto sotto la sua tenda. Pioveva a dirotto. I soldati avevano il morale basso. Non combattevano da mesi e le provviste si stavano esaurendo. La guerra era persa. Un giannizzero si presentò alla sua tenda, grondante d’acqua. Il Gran Visir desiderava vederlo.

“Benvenuto, Dago.”

“Hai bisogno che io prepari i tuoi bagagli per la ritirata?”

“Ritirata? Non abbiamo ancora preso Vienna.”

“E non la prenderai mai. Hai commesso l’errore della tua vita, Gran Visir. I difensori di Vienna non si arrenderanno. Difendono qualche cosa di più grande di ciò che tu attacchi.”

“Basta. Dimentichi con chi parli? Sono la mano destra del sultano!”

“Si” rispose Dago per nulla intimorito. “Molti uomini continuano a vivere con le mani amputate!”

“Piantiamola con le discussioni. Ho una missione per te”

“Ti ascolto.”

Il piano era l’ultima possibilità per il Gran Visir di prendere Vienna. Gi attacchi si susseguivano uno dopo l’altro, ma le mura di Vienna non cedevano e i giannizzeri erano sempre costretti alla ritirata. Fortunatamente la famiglia di uno dei generali a difesa di Vienna era caduta in mano turca. Secondo il Gran Visir rappresentavano la carta vincente. Dago si sarebbe dovuto unire al prossimo attacco dei giannizzeri vestito da austriaco e là avrebbe dovuto contattare il generale a difesa della porta nord, Von Brucknel. L’assalto venne portato nel tardo pomeriggio contro una breccia aperta in precedenza. A presidiarla gli archibugieri austriaci, precisi e letali. Nel trambusto Dago si nascose presso un cumulo di macerie e sgattaiolando raggiunse l’interno della città. Indossava una divisa austriaca e si mise alla ricerca del conte Von Brucknel. Chiese qua e là e finalmente un soldato lo condusse dal nobile. Al suo cospetto, Dago si presentò.

“Ho un messaggio confidenziale per lei, possiamo parlarne?”

Von Brucknel lo osservò attentamente. Non gli sembrava un soldato che difendeva la città. Era ben nutrito e in forze.

“Va bene”. I due si appartarono e Von Brucknel prese la parola.

“Bene, siamo soli ora. Che messaggio invia Ibrahim?”

“Come sai che mi manda lui?”

“Ehi, so riconoscere ancora uno dei miei. Avanti, cosa vuoi?”

“Sono un guerriero e mi costa darti questo messaggio. Si tratta della tua famiglia. Ibrahim l’ha catturata”

Von Brucknel perse la sua sicurezza. C’era la disperazione sul suo volto. E Dago proseguì

“Risparmierà le loro vite se tu farai arrendere il settore che comandi. Avrai onori e ricchezze.”

“Devo arrendermi? Cedere Vienna?”

“E che cos’è Vienna. Una città. Mura, case. Una bandiera. Un re che impone le tasse. Tutto questo vale tua moglie e i tuoi figli?”

Gli occhi del conte si abbassarono e il suo corpo tremava. Ma nella sua voce un tono metallico e deciso.

“Non hai mai avuto una città tua, rinnegato?”

“Si, ma la mia città ha ucciso i miei e mi ha reso come sono.”

“Hai avuto sfortuna. O forse sono io ad averla, dato che amo la mia città e amo i miei. Sono due amori e purtroppo non c’è modo di salvarne uno senza distruggere l’altro. L’entrata dei turchi a  Vienna significherebbe solo il massacro di migliaia di famiglie. C’è solo una cosa da fare.”

Il conte chiamò uno dei suoi. Il soldato l’ho guardò sconvolto.

“No, non puoi chiedermi una cosa del genere”

“Non te lo chiedo, è un ordine”. Von Brucknel s’inginocchiò e la pesante spada del soldato lo decapitò di netto.”

A Dago  fu concesso di tornar al campo turco per riferire cosa aveva visto. Vienna non si sarebbe mai arresa.

Il Gran Visir non poteva credere alle parole di Dago. Se ne andava così l’ultima speranza di catturare la città. L’inverno stava per abbattersi di nuovo e le provviste erano quasi esaurite. Dovevano ritirarsi. Il rinnegato  fece una richiesta.

“E gli ostaggi?”

“Moriranno, naturalmente. Ho dato la mia parola.”

Dago estrasse la sua daga e la piantò alla gola di Ibrahim

“Farai liberare immediatamente la famiglia del conte e la farai condurre alle porte di Vienna o ti ucciderò subito!”

“Uccidermi significherebbe anche la tua morte.”

“Che importa. Tu ed io siamo condannati. Hai fallito davanti a Vienna e io ho fallito nlla vita. Ci rimane solo la nostra dignità.” Il Gran Visir spostò la lama dalla sua gola e con la sua scorta accompagnò di persona la contessa con i piccoli alle mura di Vienna. Si parlò molto di quel gesto magnanimo da parte del turco amico di Solimano. Un cavaliere fra i barbari. Il Gran Visir rientrò al campo.

Dago era soddisfatto. Quando salvava delle vite innocenti, si sentiva sollevato.

“Oggi ci siamo alzati al di sopra della nostra meschinità, Gran Visir. Ti sei reso immortale a Vienna. Siamo due condannati a morte, ma oggi possiamo essere orgogliosi di noi.

Il giorno seguente nel fango, nella pioggia battente l’esercito turco iniziò la definitiva ritirata. Si lasciò dietro montagne di cadaveri e rifiuti. Vienna salutò felice la loro partenza.

 

La ritirata fu disastrosa. Il caos dominava fra i turchi. Una confusione che aumentava giorno dopo giorno. Si abbandonavano le armi, i cannoni. I villaggi erano saccheggiati, gli abitanti spesso uccisi. Si uccideva per un pezzo di pane. Il freddo faceva il resto. L’immenso esercito con cui si doveva conquistare l’europa era completamente allo sbando. Era stato sconfitto dalla sua stessa grandezza. Troppi uomini da sfamare. Milioni di soldati. Milioni di cavalli e muli. Il drago era stato ucciso dalla sua stessa grandezza.

Il Gran Visir era pallido, invecchiato. Doveva tornare a confessare il proprio fallimento. Solimano detestava gli insuccessi. Dago si trovava in quella lunga colonna di soldati sconfitti, non voleva finire preda di qualche disperato che poteva uccidere per mangiarsi il suo cavallo. Decise che ra giunto il momento di defilarsi, abbandonare quella massa senza forza e senza morale. Spronò il cavallo e si perse nelle foreste dei Balcani. Arrivò a Costantinopoli qualche mese più tardi, ormai la notizia sulla sconfitta dell’esercito turco era stata dimenticata, o, meglio, non troppo diffusa. Seppe che il Gran Visir si era inventato una parata al suo ritorno dalla guerra. Una marcia trionfale per le vie di Costantinopoli, per trasformare una vergognosa sconfitta in trionfo. Incredibile, ma il Gran Visir era abile nel manipolare i fatti. Il mercato a Costantinopoli era più vivo che mai. Soldati, mercanti, truffatori e affaristi. Anche mendicanti, individui tragici e sporchi, spesso mutilati per le ferite riportate in una delle tante guerre che aveva combattuto il sultano. C’era molta confusione, ma su tutte le voci una si sentì distintamente. Un povero uomo, senza braccio e senza gamba, si lamentava ad alta voce. Inveiva contro il Gran Visir, ricordava che erano stati sconfitti davanti Vienna. La vittoria era solo un frutto dell’immaginazione. Un giannizzero udì quelle parole di disfattismo e cerco di colpirlo con il frustino. La scena si svolse sotto gli occhi di Dago, che intervenne per fermare la frustata del soldato.

“Non alzare mai la frusta su chi è migliore di te. Questo traditore, come tu lo chiami, ha scalato quattro volte le mura di Vienna nello stesso pomeriggio. L’ultima volta l’ha fatto con un solo braccio e la scimitarra fra i denti. E’ stato l’unico sopravvissuto del suo battaglione. L’abbiamo riportato all’accampamento. Aveva ferite di spada e  una gamba maciullata da un colpo di falconetto. Come osi alzare la frusta su di lui?”

 

Il giannizzero rimase ammutolito di fronte a quella figura nera che aveva preso le difese dello storpio.  Comprese di aver sbagliato e s’inginocchiò di fronte a quell’uomo che aveva dato tutto per il suo sultano. In segno  di scuse gli consegnò il suo coltello e chiese che la sua mano fosse tagliata per essere stato così ingiusto. Il mendicante lo fece rialzare e lo ringraziò del gesto. Non c’era bisogno. Capiva e riconsegnò l’arma al giannizzero. La folla che si era formata, di disperse in fretta e il mendicante con Dago rimasero soli.

 

“Dago, mi avevano detto che eri tornato vivo. Anche con un bottino che ti ha reso ricco.”

“Vieni con me, Hemal. Vivo solo e mi serve un uomo come te, che amministri la mia casa. Ti offro un buon salario e l’opportunità di derubarmi ragionevolmente.”

“Non mi piace la pietà, Dago!

“Vuoi che pianga sul braccio e la gamba che hai perso? Sei troppo abituato a mendicare. Reagisci uomo. Prendere o lasciare.” Lo sguardo di Dago si fece duro. Hemal lo osservò  e poi fece un sorriso sarcastico. Dago non gli offriva la sua misericordia, ma un’occasione per tornare a vivere da uomo, malgrado le sue mutilazioni.

“Accetto.”

Dago e Hemal si diressero verso casa.

 

Inserire qui una descrizione di una tipica abitazione a Costantinopoli (casa di Dago)

 

Passarono alcune settimane. Hemal era ora soddisfatto della sua vita. Aveva perso il suo orgoglio da vecchio soldato mendicando per le vie di Costantinopoli. Dago gli aveva offerto un’occasione e lui l’aveva colta al volo. Ripulito, con la b arba curata e profumata. Begli abiti e perfino un braccialetto d’oro, che lo rendeva rispettosi i mercanti. Ora gestiva la cassa e gli schiavi del giannizzero nero. Dispensava elogi e bastonate. La casa di Dago era governata perfettamente. Fra Hemal e il rinnegato c’era quel rispetto da soldati. Non era un servo per Dago, ma un suo pari. E il rinnegato gli dimostrò la sua amicizia donandogli un bauletto pieno di gioielli, ricompensa del Gran Visir per i favori resi. Era una fortuna. Hemal era diventato un uomo ricco e non doveva più servire Dago. Ma cosa poteva fare un mezzo uomo come lui? Aveva ritrovato la dignità, ma era tutto. Una sera, a cena con l’amico, Dago cercò di spronarlo.

“Mi stai annoiando con i tuoi lamenti. Sei stato un grande guerriero e mi dà fastidio sentirti guaire come un cane randagio.”

“Ma cosa può volere un mezzo uomo?”

“Tanto per cominciare, cercati una moglie. Non sei più giovane e devi fare qualche figlio.”

“E dove la trovo una moglie, pensi che possa attrarre qualcuna nelle mie condizioni?”

“Al mercato degli schiavi. Ti cerchi una giovane, bella e obbediente. E sei a posto, non credi?”

Dago aveva ragione. Hemal pensò seriamente al consiglio dell’amico.

Il mercato degli schiavi di Costantinopoli.

Inserire descrizione mercato

 

 

Sono là, portati da tutte le parti del mondo da eserciti vittoriosi o da flotte pirata. Pelli di tutti i colori, occhi pieni di terrore per il futuro. Gli schiavi del mercato di Costantinopoli attendevano il loro destino. Merce destinata alla vendita. Bellezze Circasse, nubiani forti e resistenti, bambini perfetti per i lavori domestici. C’era di tutto, ma c’erano anche quelli che non si arrendevano, uomini e donne difficili da piegare. In un angolo una ragazza bellissima veniva frustata perché rifiutava di alzarsi. Il mercante di schiavi imprecava. Hemal, che stava facendo il suo giro per seguire il consiglio di Dago, vide quella donna di colore, bella e altera, sporca, in mezzo alla polvere. Si avvicinò al mercante e bloccò il suo braccio che teneva la frusta.

 

“Fermo. Che fai? La ragazza è bellissima, ne ricaverai un buon prezzo, non la sfregiare.”

“Questo lo credi tu. L’ho portata sei volte all’asta e ogni volta lei ha morsicato i clienti e gli ha sputato, con il risultato che nessuno ha offerto una moneta per lei.”

“Eppure e tanto bella.”

La donna era davanti a Hemal. Superba. Uno straccetto nero a coprire le sue curve femminili che lasciava intravedere un corpo da sogno. Lo sguardo della donna era assente. Il mercante di schiavi notò l’interesse di Hemal e reagì velocemente all’opportunità che gli si presentava.

 

“Sei un intenditore, al suo paese era una principessa. Penso che per questo la sua condotta lasci a desiderare. Basteranno poche bastonate e sarà dolce come il miele. Un prezzo modico per lei.”

 

La donna improvvisamente intervenne nella discussione.

 

“Non mi comprare, mezzo uomo. Sono figlia di re e non mi arrenderò mai. Tanto meno davanti a un uomo che non può prendere una tazza con due mani. Non mi comprare.”

“Come osi parlare, cagna abissina! Ti darò dieci frustate!”

Hemal fermò nuovamente il braccio del mercante.

“Fermo, la compro per due pezzi d’oro.”

 

Hemal condusse la sua nuova schiava alla casa di Dago. Ma subito l’impresa di domarla non fu semplice. Grida, urla, suppellettili che si infragevano contro le pareti. Dago fu svegliato dal baccano.

 

“Cosa succede qui? Chi disturba il mio riposo?”

La cucina sembrava un campo di battaglia. Hemal era abbastanza affranto. La nuova schiava abissina, chiamata Moala, non si sottometteva.

“Questa è la mia nuova schiava, Moala, stavamo discutendo un po’.”

“Discutere?” rispose Moala. Io non parlo  uomini con braccia e gambe di legno. Nella mia terra sono alti e forti e corrono come antilopi. Non puoi comandarmi, devi strisciare come un verme uomo senza braccio.”

“Bel caratterino, pensavo ti scegliessi una mogli che ti rendesse la vita facile non una specie di tigre nera che potrebbe sbranarti.”

“Hai ragione Dago. Ma è una tigre che voglio.”

 

“Bah….non sono esperto di donne, generalmente mi risultano fastidiose. Lasciala perdere.”

“Parli facile, amico mio. Tu hai il cuore morto e privo di necessità.”

 

La notte scese sulla casa di Dago. La questione di Hemal con Moala era rimandata. Ma non fu una notte tranquilla. Delle ombre furtive scavalcarono il muretto e penetrarono nella casa. Hemal era sempre attento alla sicurezza e aveva un sonno leggero. Si destò e vide cinque uomini che avevano prelevato Moala dal suo giaciglio per condurla via.. Non perse tempo, il veterano di mille battaglie. Prese prima la balestra e colpì al petto uno dei rapitori.  Poi raccolse la fida spada e si scagliò contro i rapitori. Ne stese due in un lampo, la sua abilità di soldato era nota. Moala era ora libera e si mise al riparo. Un quarto  ferì alla Hemal  schiena, ma un colpo alle spalle  tranciò di netto la testa dell’assalitore. Dago era intervenuto ad aiutare l’amico. Ne rimaneva solo uno. E non costitutiva di certo un pericolo, dato che sembrava tutto meno che un combattente. Era una faccia nota. Hemal lo riconobbe. Il mercante di schiavi che gli aveva venduto Moala.

“Guarda, guarda, il buon mercante in persona. Ti sei pentito della vendita?”

“Per favore non mi uccidete” disse l’uomo supplicando. “Un uomo vuole comprarla per cento pezzi d’oro. Posso dirvi chi mi ha promesso la ricompensa.” Hemal e Dago si scambiarono un cenno d’intesa.

“Va bene, parla”. Con stupore i due amici ascoltarono quanto aveva da dire il mercante.

Il giorno dopo Dago, Hema e Moala si ritrovarono al cospetto del Visir Ibrahim che gli raccontò l’intera storia. Era stato lui a ordinare di rintracciare la donna, ma non sapeva in quali mani fosse finita. Moala era figlia del re di Abissinia, alleato di Solimano. Purtroppo una ribellione interna, appoggiata dai veneziani con lo scopo di appropriarsi delle ricchezze di quella regione, aveva rovesciato il monarca, ucciso. I parenti della sua casa erano poi stati venduti come schiavi. Moala era quindi finita  a Costantinopoli. Il Visir voleva ristabilire la famiglia deposta sul trono di Abissinia e Moala era l’unica sopravvissuta. Un esercito sarebbe stato inviato in Abissinia per rimetterla sul trono. Il Gran Visir non perse tempo. Dago fu messo a capo della spedizione.

Quella sera, nel giardino della casa di Dago, Hemal sedeva alla luce della luna, pensieroso, malinconico. Moala non era più una schiava. L’aveva persa, forse per sempre. La principessa d’Abissinia lo vide dalla finestra. Aveva visto un vero guerriero in sua difesa, la notte del tentato rapimento. Uscì e raggiunse Hemal.

 

“Ora non vuoi più sposarti con me?”

“Mi prendi in giro? Una cosa era Moala la schiava un’altra è la prossima regina d’Abissinia.”

“Dimentichi Moala la donna. Quella che ti ha visto lottare come un leone e ha capito che perderti era peggio della morte.”

La luna si rifletteva nella fontana. Nell’aria un dolce profumo di fiori. Moala s’inginocchiò di fronte a quell’uomo fantastico e coraggioso.

 

“Hemal, per favore….amami.”

 

Il Gran Visir non perde tempo per preparare la campagna d’abissinia. Il giannizzero nero era per la prima volta al comando di un vero esercito. Era temuto e rispettato. Un uomo che i soldati definivano cupo e allarmante. Persino Barbarossa lo temeva. Un capo abile e spietato con il nemico. Dago aveva pianificato la campagna in maniera ottimale. Il territorio ostile dell’abissinia richiedeva una strategia accorta. Dago stabilì di lasciare depositi con acqua e provviste a ogni giorno di marcia in maniera tale da non doverli portare con loro. La velocità era essenziale in quella guerra. La regina Moala era il simbolo di questa guerra di riconquista. Una vera guerriera. Al suo fianco il marito Hemal. L’uomo troncato, come lo chiamavano i suoi giannizzeri. Mutilato, ma soldato temibile e ora l’uomo che avrebbe riportato la regina sul trono.

A fronteggiare la spedizione turca re Selassiè, appoggiato apertamente dai veneziani. Nel grande villaggio del nuove re abissino, un distaccamento di veneziani. A comandarli una vecchia conoscenza : Leonardo Caravelli, ormai fidato condottiero al soldo del doge Grimani.

 

Inserire descrizione del villaggio abissino.

 

Durante il XV ed il XVI secolo l’Eritrea settentrionale e la zona costiera finirono sotto il totale controllo ottomano, che governò la regione per oltre 300 anni dalla sua sede nel porto di Massawa.

 

Leonardo era lì per curare gli interessi di Venezia e assicurare l’appoggio militare di cui aveva bisogno Selassiè. Il re aveva svuotato le casse del regno per pagare le armi e i mercenari che Leonardo aveva portato con sé. Non era un’alleanza che poteva durare molto. Spesso i mercenari lanzichenecchi depredavano i villaggi o si approfittavano delle donne abissine. Leonardo non sopportava quel territorio e non vedeva l’ora di tornare al più presto nella sua Venezia. Era giunta voce, fra l’altro, dell’arrivo di una forza turca con la regina Moala, erede al trono in quanto figlia del deposto re. Selassiè aveva bisogno di altro oro per mantenere il suo esercito di soldati prezzolati e chiese a Leonardo di preparare una spedizione per il tempio di Hassa Habar, dove conservava le sue ultime riserve d’oro. Leonardo e il suo consigliere Michele non erano interessati al destino dell’Abissinia. L’oro di Hassa Habar doveva finire nelle loro tasche e in quelle di Venezia. Radunarono un compagnia di mercenari tedeschi e si prepararono a partire. A osservare i preparativi, un vecchio mendicante che allevava delle colombe bianche. Era una figura abituale per  la cittadina di Debarwa, sede del re Selassiè. Non era sempre stato un mendicante. Rivestiva la carica importante di ministro con il re deposto e aveva fatto frustrare a sangue il nobile Selassiè, colpevole di tramare complotti per deporre il re, il padre di Moala. Ma non era morto sotto i pesanti colpi della frusta. Si riprese, e con l’appoggio di Venezia potè rovesciare il re e avviare una vera epurazione di tutti i suoi nemici. Fra questi c’era ovviamente il ministro, che fu accecato e ridotto in povertà. Molti pensavano che quel vecchio cieco, miserabile e quasi pazzo non costituisse un pericolo alcuno. Ma si sbagliavano. Aveva tenuto le sue colombe viaggiatrici per mandare informazioni all’esterno, senza che nessuno sospettasse. Con occhio attento e parlando con i soldati in partenza, aveva capito l’obiettivo di quella nuova spedizione militare. Doveva inviare un messaggio all’esercito di Moala.

 

Intanto il corpo di spedizione turco comandato da Dago avanzava. Sapevano della presenza di soldati europei mercenari nelle fila di Selassiè ed erano anche a conoscenza di personalità veneziane a supporto dell’usurpatore. Dago ovviamente ignorava la presenza in quel posto remoto del suo vecchio amico Leonardo.  Nell’avanzata Dago non trovò molta resistenza. Non erano lontani da Debarwa, ma non conoscevano l’esatta composizione del nemico. Dovevano avere cautela. Piantarono l’accampamento per decidere il da farsi dopo aver avuto più notizie sulla posizione e le intenzioni del nemico.

 

I mercenari lanzichenecchi non marciarono direttamente verso Hassa. Persero alcuni giorni ad approfittare dei villaggi che incontravano lungo il loro cammino. Si sentivano invincibili. Erano a conoscenza dell’arrivo dei turchi, ma si ritenevano i miglior soldati del mondo. Spadroneggiavano e uccidevano senza pietà. Solo alcuni giorni dopo i Lanzi raggiunsero Hassa, l’enorme tempio in cui era custodito segretamente l’oro del re Selassiè. A custodirlo solo pochi soldati fedeli del re che non opposero resistenza e accolsero i mercenari. I forzieri pieni di preziosi vennero caricati su due carri. Una missione facile, pensava l’ufficiale al comando. Ben presto si rese conto dell’opposto. Una gola univa il tempio alla piana del deserto e qui i lanzi trovarono la sorpresa. Ad attenderli, appostati dietro le rocce, duecento giannizzeri turchi con Hemal al comando. Lo scontro fu breve. Una pioggia di frecce dimezzò il numero dei mercenari e la successiva carica li sterminò senza pietà. Pochi quelli che riuscirono a fuggire. L’oro di Selassiè era ora in mano a Moala. A Derwaba Selassiè non si dava pace. La notizia del massacro della colonna dei mercenari l’aveva lasciato senza oro. Come poteva continuare la guerra? Ma, soprattutto, come avevano potuto i turchi sapere del tempio di Hassa Habar? Ci furono delle indagini. Molti a corte avevano notato quelle strane colombe che volteggiavano intorno al vecchio ministro. Proprio Leonardo notò quell’uomo stranamente vigile e attento il giorno in cui fu inviata la colonna dei lanzichenecchi ad Hassa. Una colomba era volata via, ma non aveva capito allora. Non fu difficile scoprire che le colombe erano addestrate. Leonardo riferì dei suoi sospetti e delle sue indagini a Sellasiè. Il giorno dopo il ministro fu decapitato in pubblico.

Dago aveva dunque vinto la prima battaglia contro l’usurpatore abissino e i veneziani. I mercenari di Leonardo avevano deciso di rimanere a combattere, nonostante non ci fosse più oro. Si sarebbero ripagati depredando l’abissinia. Fra l’altro il doge aveva garantito che non avrebbe abbandonato Selassiè fino a che la minaccia turca fosse durata. I maledetti turchi che appoggiavano la regina Moala. Dopo il massacro di Hassa, avevano cominciato a temere i giannizzeri  e soprattutto si vociferava del loro comandante. Un rinnegato. Un veneziano vestito di nero passato al servizio del Gran Visir Ibrahim Pascià. I lanzichenecchi stazionavano a Derwaba e c’era un caldo d’inferno. Leonardo e Michele si stavano rinfrescando e facevano il punto della situazione.

“Non sopporto più questo caldo, Michele. Non vedo l’ora di tornare a Venezia”

“Potrai farlo presto, signore. Non appena risolto il problema dell’invasione dei turchi. Il doge è stato chiaro al riguardo.”

“All’inferno anche il doge! Lui se ne sta comodo a Venezia, davanti al fuoco con la sua giovane moglie che gli massaggia le tempie, mentre io crepo qui di caldo.”

“Sei il suo braccio destro. E’ logico che abbia mandato te. L’abissinia è una grossa fonte di guadagno per la sua repubblica e il suo re è docile e compiacente. Non possiamo permettere che i turchi rimettano sul trono la figlia del compianto re.”

“Lo so, lo so. Dobbiamo organizzare l’esercito di questo re pagliaccio e vincere la guerra per lui.”

“Hhmmm esercito? Me lo chiami esercito? Abbiamo un’orda di selvaggi, disordinati con i lanzichenecchi sempre a lamentarsi.”

“Cosa sappiamo dei turchi?”

“Dispongono di un solo corpo di giannizzeri. Guerrieri ben addestrati. Molte tribù li appoggiano e i nostri problemi sono ora raddoppiati.”

 

I giannizzeri e i guerrieri delle tribù che si erano alleate sgominarono senza fatica la milizie di frontiera  di Selassiè, anche se il grosso dell’esercito non era ancora sceso in campo. Dago, Hemal e Moala non erano sicuri del successo. Il nemico li superava di numero e anche se disponevano di soldati più addestrati, la missione rimaneva difficoltosa. Selassiè disponeva della compagnia di Lanzi e di un esercito composto da un enorme numero di guerrieri. Di certo non addestrati, ma pur sempre temibili. Moala riferì queste informazioni a Dago, dopo essere riuscita ad averle da persone fidate a Derwaba. I tre ragionavano sotto la tenda della strategia da seguire

“Ci sono anche un inviato del doge e vari consiglieri che lo aiutano.” Disse Moala.

L’interesse di Dago improvviamente si svegliò.

“Conosci il nome di questo inviato?”

“Leonardo, Leonardo Caravelli.”

Dago impallidì. Hemal lo osservò incuriosito.

“Che ti prende? Sei bianco come un lenzuolo”

“Io…devo uscire…..a respirare.”

Tutta l’odio di Dago venne a galla. Leonardo, l’omicida e traditore era a portata di mano. Uno strano scherzo del destino. Sentiva dentro di sé salire la rabbia. Il suo sguardo fisso nel vuoto con quella ossessione. Leonardo non immaginava neppure che fosse ancora vivo. Lo riteneva morto e sepolto. A meno che la moglie del doge avesse riferito del suo incontro durante il sacco di Roma.  Ma non era importante. Non era solo la guerra per la conquista dell’abissinia. Un’altra guerra lo attendeva. Questa personale, ma non meno violenta.

Nei giorni seguenti Dago combattè alla testa dei suoi uomini in maniera demenziale e brillante allo stesso tempo. Sempre alla loro testa, uccideva senza pietà ogni suo avversario e con marce forzate si avvicinava a Derwaba. I suoi giannizzeri lo consideravano un pazzo e infedele. Ma come combattente e stratega si rivelava insuperabile. Li avrebbe sicuramente condotti alla vittoria. Continuò ad attaccare senza soste anche le pattuglie nemiche in avanscoperta e le guarnigioni a guardia delle linee di rifornimento. In una di queste scaramucce, lasciò vivo un ufficiale, un lanzichenecco e gli raccontò una storia da riferire a Leonardo. Ulrich si chiamava quel soldato. Fu lasciato andare, ferito e impolverato. Ulrich raggiunse Derwaba dopo alcuni giorni di cammino e fu chiamato a rapporto da Leonardo.

 

“Ulrich, cosa è successo?”

“Hanno attaccato i depositi vicino le alture di Karifa. Sono l’unico sopravvissuto. Il loro capo mi ha detto di raccontarti tutto…..strano.”

“A che ti riferisci?”

“Mi ha prima interrogato sulla tua identità. Voleva sapere tutto su di te. Che posto occupavi a Venezia, dei tuoi figli, su tua moglie, la tua ricchezza. E mi ha detto di riferirti che cercava te. Non sembrava un uomo, ma un vero demonio con quella uniforme nera e lo sguardo assassino. Attento Leonardo.”

 

“Mi cerca? Ma chi è”?

 

Ormai la guerra in abissinia era persa per i veneziani alleati con i Lanzi tedeschi per sostenere l’usurpatore Sellasiè. Leonardo e il suo consigliere Michele non avevano più ragione di rimanere a sostenere una guerra persa. Potevamo prolungare lo scontro o cercare un accordo con i turchi. Scelsero di contattare il capo della spedizione turca. Era un rinnegato, avrebbero tentato di corromperlo e cercare così di rovesciare le sorti della battaglia.  Leonardo desiderava anche  conoscere il misterioso avversario. Un rinnegato che cercava informazioni su di lui  e che proveniva da Venezia. Era giunto il momento di conoscere questo fantasma che li aveva sconfitti con grande abilità. Michele si occupò di organizzare l’incontro. Ma Leonardo non era tipo da incontri leali. Ordinò all’ufficiale dei lanzichenecchi, Ulrich, di preparare i suoi uomini per un’imboscata. Si voleva assicurare che un avversario tanto temibile scomparisse definitivamente nel caso non fosse stato disposto a essere corrotto. L’incontro si sarebbe tenuto sulla riva del mare. Leonardo ordinò che una galera fosse tenuta pronta al largo, nel caso di pericolo.

 

Dago e Hemal lessero il documento inviato da Leonardo. Erano dubbiosi a riguardo. Soprattutto Hemal non si fidava.

 

“Il veneziano vuole vederti…..Non mi piace. Ho sentito parlare di questo Caravelli e ti consiglio di non…….”

“Lo incontrerò, Hemal”. Dago non gli lasciò nemmeno finire la frase

“Non è prudente, Dago.”Aggiuse la regina Moala.

“Questo non importa. Devo incontrarlo. Da solo”

 

Moala e Hemal non capivano. Il rinnegato sembrava tremare ogni volta che si nominava il veneziano. Avevano intuito che c’era qualche cosa di personale e Dago sembrava aver dimenticato le regole naturali della prudenza. Non voleva sentire ragioni. Senza scorta, dritto in bocca a un nemico subdolo. No, Dago si stava condannando a morte.

Una nebbiolina vischiosa accolse Dago lungo la riva del mare all’alba del giorno dopo. Ad attenderlo Leonardo Caravelli, più nervoso del solito senza sapere la ragione. In fin dei conti il suo avversario era un semplice rinnegato cristiano corruttibile. Nulla di cui preoccuparsi eccessivamente. Prima il rumore degli zoccoli di un cavallo e poi, nella nebbia, una figura nera si fece sempre più vicina. Un silenzio irreale, rotto solo dalle onde che facevano da testimoni all’incontro. I due cavalieri erano ora uno di fronte all’altro. La nebbia li avvolgeva, ma si poterono guardare direttamente negli occhi. Leonardo non riconobbe il vecchio amico. Dago controllò il suo odio e assunse il suo solito sguardo impassabile e penetrante.

“Sono qui come puoi vedere, veneziano, parla. Cosa hai da proporre?”

“Ah, finalmente ho di fronte  il famoso Dago. Ho sentito molto parlare di te.”

“Lascia stare i convenevoli e badiamo al sodo. Hai un’offerta da farmi, vero?”

“Si, ignoro il motivo per cui hai lasciato Venezia, ma posso offrirti un indulto totale e più oro di quanto tu possa sognare. Torneresti in patria ricco e onorato.”

Dago sorrise. Ma era un ghigno crudele, feroce e allo stesso tempo beffardo. Leonardo sembrava riconoscere quello sguardo, dove aveva già visto quegli occhi. Era come se avesse già incontrato quel cavaliere nero.

 

“Devo fidarmi della tua parola, veneziano?”

“Sono un nobile e il mio onore non è mai stato messo in dubbio.”

 

Di nuovo una risata sottile attraversò il viso di Dago.

“Il tuo onore…….Come sta Ortensia, Leonardo? Ho saputo che l’hai sposata.”

Leonardo improvvisamente impallidì e i muscoli del suo viso si contrassero.

“Eh? Come puoi conoscere mia moglie…come?”

“So tutto di te, Leonardo. Ma tu non mi riconosci. E’ ovvio. Anni di schiavitù tra i turchi cambiano l’aspetto di un uomo. Ho conosciuto il remo, il deserto, la frusta e il fuoco. Ho conosciuto miserie e orrori che tu non puoi nemmeno sognare. Sono stato schiacciato e ucciso mille volte. E mille volte sono resuscitato. Si, molti inferni ho attraversato e non mi sorprende che tu non mi riconosca.”

“Basta….chi sei?”

“Neanche i tuoi amici mi hanno riconosciuto….Kalandrakis e Ahmed Bey. Non mi hanno riconosciuto, ma io ho ricordato loro il mio nome prima di ucciderli. Con te non ne avrò bisogno. Dopotutto tu eri il mio migliore amico, non è così Leonardo?”

Il viso di Leonardo era ora una maschera di terrore.

“No, non può essere…tu sei….tu sei…….no……”

Ormai balbettava, un brivido gli percorse la schiena. Improvvisamente gli tornò alla mente quella notte di sangue, su cui aveva costruito tutta la sua fortuna. Gli occhi di Dago erano quelli di un serpente che stava per assaltare la sua preda.

“Sono venuto a restituirti la daga che mi hai conficcato nella schiena, Leonardo”

“Marco….Marco Dandolo. Non può essere. Tu sei morto. Morto”.

Leonardo non credeva alle sue orecchie, ma le due pistole che aveva sotto il mantello gli ricordarono che poteva ancora uccidere quel fantasma. Riuscì a estrarne una, ma il fulmineo movimento della scimitarra del rinnegato gli troncò di netto la mano. Un dolore lancinante attraversò il corpo di Leonardo. Dago poteva disporre di lui come voleva.

“Pensa ai miei, bastardo. Mio padre, mia madre e mia sorella….e a me. Pensaci, assassino, e comincia a pentirti. Leonardo soffriva dal dolore, ma ebbe la lucidità di estrarre la seconda pistola con la mano rimasta. E senza pietà Dago colpì violentemente per la seconda volta con la lama della sua spada. Ora di fronte a lui un uomo monco, terrorizzato e pieno di sangue. Riuscì solo a gridare, e in suo aiuto accorsero i lanzichenecchi del fido Ulrich, nascosti fra le dune. Le minacciose alabarde dei tedeschi avanzarono verso Dago. Doveva immaginare che Leonardo non aveva onore e gli aveva teso una trappola. Il giannizzero nero era perduto. I lanzichenecchi erano troppi per un solo uomo. Ma il cielo all’improvviso si oscurò. Un nugolo di frecce cadde sul battaglione dei mercenari. La sorpresa fu totale. Lungo la spiaggia i giannizzeri si lanciarono alla carica. I lanzichenecchi presi alla sprovvista, si diedero alla fuga. Intanto, approfittando della confusione, Leonardo era salito su una barca. Si era preparato la via di fuga con una galera che lo aspettava al largo. Era già lontano quando Dago tornò a occuparsi di lui. Leonardo gli era sfuggito. La vendetta era per il momento rimandata. I giannizzeri fecero strage degli uomini di Ulrich. A comandarli Hemal, che aveva deciso di proteggere Dago.

“E così hai deciso lo stesso di corpirmi.”

“Sei una testa dura, Dago. Non vale la pena discutere con te. Ho agito per conto mio e a quanto pare, ho fatto bene.”

“Si, hai fatto bene, amico mio.”

Dago si voltò a guardare quella galera allontanarsi. Alzò il braccio sicuro che quell’uomo monco lo stesse osservando.

 

“Arrivederci, Leonardo. Aspettami, un giorno sarai mio.”

 

A bordo dell’imbarcazione Leonardo fu medicato. Era ancora terrorizzato. Guardava la costa allontanarsi, e ancora nei suoi occhi aveva quella figura nera, demoniaca, che non lo avrebbe più abbandonato nei suoi sonni veneziani. L’incubo era appena iniziato.

 

Con la fuga di Leonardo e i lanzichenecchi decimati dai continui attacchi dei giannizzeri guidati da Dago, la guerra d’Abissinia volgeva al termine. Re Selassiè disponeva ormai solo di uno sparuto gruppo di guerrieri, che non potevano sicuramente opporsi al giannizzero nero e le sue truppe. Derbawa fu investita dai cavalieri turchi. Non ci fu molta resistenza. L’ultima battaglia per il trono d’abissinia era iniziata. Non c’erano dubbi, ormai, sulla vittoria della regina Moala. Selassiè non ebbe scampo. La sua guardia personale fu facilmente massacrata dalle scimitarre dei giannizzeri turchi. Ad attenderlo l’ascia dei traditori. Fu decapitato il giorno stesso della sua sconfitta. Giustizia era fatta. L’Abissinia tornava a essere governata dalla sua regina legittima. La regione era ridotta in miseria. Molti villaggi non avevano di che mangiare. Per la regina Moala il difficile veniva adesso. Non doveva più lottare contro un esercito, ma contro la miseria in cui il suo paese era immerso. Doveva trovare cibo, seminare e resuscitare il commercio. La guerra non aveva fatto che aggravare questa situazione. C’erano delle tribù ribelli e molti non vedevano di buon occhio la regina. Moala e il suo consorte Hemal avevano un’altra impresa da compiere. Più difficile della prima. Dago non aveva ancora deciso di tornare a Costantinopoli. Leonardo gli era sfuggito, ma voleva ancora aiutare l’amico e la sua bella moglie. Un nuovo tipo di sfida lo attendeva. Non più come uomo d’arme e violenza. Ora poteva costruire qualche cosa per la vita, qualche cosa che la creasse, non che la distruggesse. Chiese Uomini, farina e ferro. Avrebbe provato a rendere più vivibile quella martoriata regione. Aveva bisogno di un po’ di pace per la sua anima e quella era l’occasione. Un altro tipo di battaglia. Un’altra sfida attendeva il rinnegato.

Una mattina lasciò Derbawa seguito dal gruppo di uomini che l’avrebbero accompagnato per la regione. Lui a cavallo, seguito dal quel gruppo di uomini, non guerrieri, ma gente che credeva in lui e l’avrebbe aiutato nella ricostruzione di quella terra martoriata. Il giannizzero nero sembrava animato da un’energia differente. Lui, uomo di guerra e violenza, doveva ricostruire una nazione, doveva dare fiducia a un popolo ridotto alla disperazione. Forse ne aveva abbastanza di tanto odio e furore. Oppure, più semplicemente, anche lui aveva bisogno di una tregua. Il suo cuore di pietra batteva quando c’era qualcuno da aiutare. Il guerriero più feroce che aveva mai cavalcato quelle terre si lanciava in una crociata con un gruppo di straccioni. Si fermò in molti villaggi. La sua esperienza del deserto fece il resto. Ordinò di scavare pozzi d’acqua sotterranei, come facevano i beduini del deserto. Con l’acqua si procedeva a irrigare i campi seminati. Fece costruire mulini e forni per preparare la farina e produrre pane. L’anno dopo, incredibilmente, i primi germogli. I primi campi. La vita per quella povera gente. Dago era felice. Finalmente donava la vita invece di toglierla. La sua sete di vendetta era per il momento placata. Una vittoria conseguita con la volontà senza che nessuno morisse. Il suo nome girava di villaggio in villaggio. Moala e Hemal potevano ora veramente pensare di ricostruire un paese. Ma solitamente un trionfo scatena invidia e ambizioni. Molti nobili vicino a Moala cominciarono a lamentarsi. Il nome del giannizzero nero risuonava ovunque. La folla inneggiava al suo salvatore. Ministri e generali non erano contenti. Moala era pur sempre la regina, ma il popolo chi avrebbe seguito? A chi avrebbe obbedito. La gloria di Dago cominciava ad oscurare la regina. Moala era donna forte e aveva il senso dello stato. Sapeva che quanto dicevano i suoi ministri e consiglieri era vero. Non poteva condividere il potere con il rinnegato. Se ne doveva andare. La sua gratitudine doveva essere sacrificata alla ragion di stato. Hemal non condivideva la sua scelta. La donna che tanto amava voltava le spalle all’uomo che aveva fatto tanto per lei e la sua gente. Posizione difficile per lui che tanto doveva all’amico rinnegato. Moala, nonostante il diniego di Hemal, prese la sua decisione. Avrebbe inviato Dago dal sultano con un suo dono per ringraziarlo dell’aiuto. Si sarebbe così liberata di quello scomodo personaggio. Hemal lasciò per qualche giorno la capitale e andò a trovare Dago, lasciando la sua regina Moala. Entrambi non si resero conto di quanto stesse succedendo a corte. Aluf, ministro con grandi ambizioni, ambiva al trono. Era lui uno dei più insistenti nel voler la partenza di Dago. Le sue ragioni non erano messe sul piatto per rafforzare il potere della regina, bensì doveva allontanare quel condottiero tanto temibile se voleva conquistare il trono di Abissinia. Moala si fidava di quell’uomo, sbagliando, aveva ancora molto da imparare se voleva governare con giustizia. Aluf aveva dato il via a un vero e proprio complotto. Ormai la notizia che Dago avrebbe abbandonato l’Abissinia era ufficiale. Sapeva bene che la gente adorava quel rinnegato cristiano con la divisa nera. Se fosse stato ucciso, il popolo avrebbe accusato Moala. I guerrieri abissini, fedeli a quell’uomo che li aveva condotti alla vittoria, non avrebbero capito e Moala avrebbe fatto da capro espiatorio. Aluf cercava di destabilizzare l’Abissinia e con un Dago morto e sepolto, avrebbe poi potuto prendere il potere con facilità.

Hemal giunse a uno dei tanti villaggi che Dago aveva aiutato a prosperare. Campi di grano intorno. Sembrava un miracolo in quella terra tanto deserta e arida. Dago era capace di compiere i miracoli. Da guerriero temibile si era trasformato in uomo di terra, un contadino che zappando e seminando, aveva riportato la fiducia e la voglia di vivere fra quella povera gente. Hemal lo trovò così. In mezzo ai campi, stanco e sudato, ma felice. Non l’aveva mai visto così.

“E’ incredibile ciò che hai ottenuto.”

“E’ solo l’inizio. Voglio allargare i canali d’irrigazione per fertilizzare nuove terre. Questa valle ben si presta ai miei progetti. Creeremo impianti per salare il pesce, ospedali e scuole. Voglio far sorridere alla vita questa gente.”

Hemal sospirò. Non aveva il coraggio di guardare in faccia l’amico di tante avventure.

“Hemal, che ti prende, ti vedo turbato.”

“Lo sono, amico mio, lo sono.”

Dago capì all’istante

“Allora le voci sono vere. La regina desidera che io lasci l’Abissinia”

“Come lo sai”

“Ne parlano tutti. I miei contadini mi hanno persino chiesto armi per difendermi. Sono venute delegazioni di soldati per mettersi ai miei ordini. Non vogliono che me ne vada. Ho rimandato tutti ai loro reggimenti. Ho lottato per lei e per questa terra. Non lotterò contro Moala.”

“Allora che farai?”

“Semplice, lascerò l’Abissinia. Non voglio essere motivo di discordia. Ricordi quando abbiamo iniziato questa avventura assieme? Il nostro sogno era di riconquistare un regno per una principessa. Lo abbiamo realizzato. Quel sogno è già marcio. Sono nati timori e invidie di palazzo. La bella avventura è ormai un ricordo sbiadito. Peccato, ci ho creduto per un attimo. Avevo già preparato le mie cose. Partirò subito.”

Mangiarono assieme, ricordando i bei tempi. Ma regnava un’atmosfera di tristezza. Dago salì a cavallo e salutò Hemal. Di nuovo solo, di nuovo a condurre una vita senza scopo eccetto quello della vendetta. Cavalcò tutto il giorno, fra mille ricordi. Al tramonto si fermò. Iniziò a preparare il piccolo accampamento per la notte, ma non ne ebbe il tempo. Un gruppo di uomini gli saltò addosso all’improvviso. L’avevano seguito per tutto il giorno e avevano atteso il momento propizio per sorprenderlo. Una corda alla vita e due grossi uomini a bloccarlo. Dago non capiva. Chi erano? Fu legato saldamente e qualche ora più tardi giunse un uomo a cavallo con la sua scorta. Aluf era venuto a dargli l’ultimo saluto. Dago lo riconobbe.

“Ti conosco, sei Aluf…”

“In persona, Dago. Guardami bene, sarà l’ultima volta per te.”

“Moala? Ti ha mandato per uccidermi?”

“No, è una povera stupida. Non immagina neppure quello che le sta per capitare.”

“Hmmmm, capisco. Hai previsto tutto. Il mio assassinio le sarà attribuito e nella confusione ne approfitterai per prendere il potere.”

“Sei perspicace. Esatto. Proprio per questo farai una fine orribile. Per aumentare l’indignazione popolare.”

L’uomo non aggiunse altro e si allontanò con i suoi soldati. Dago fu sepolto fino al collo. La sua testa fu cosparsa di miele. Quella era zona delle terribili formiche del deserto. Non c’era speranza di salvarsi, pensò Dago. Le formiche, attratte dal miele, lo avrebbero spolpato vivo, una morte lenta e terribile. Non ci volle molto prima di veder apparire la prima ondata di quelle formiche nere assassine. I quattro sgherri di Aluf rimasti a controllare, ridevano dello spettacolo. Lo schernivano addirittura.  Le formiche non persero tempo e ben presto la testa di Dago fu coperta dagli insetti. Piccoli morsi, uno dopo l’altro, il dolore aumentava minuto dopo minuto. Una morte degradante. Il giannizzero nero era arrivato al capolinea. Ormai era l’imbrunire, Dago non ne poteva più, stava per perdere i sensi. Un sibilo nell’oscurità e la testa di una delle  guardie rotolò. Prima che l’altro si accorgesse di qualche cosa, si ritrovò con la pancia squartata dalla scimitarra di Hemal. Gli altri due superstiti non si fecero sorprendere e la schiena di Hemal fu trafitta. Il mozzato reagì e con l’uncino colpì alla gola il suo feritore, uccidendolo. L’ultimo della banda infilzò Hemal al petto. Ma non ne potè approfittare. Il vecchio giannizzero, sebbene ferito, riuscì con l’ultimo slancio a colpirlo in pieno petto . Hemal era stremato e sanguinante. Riprese fiato e rovesciò un secchio d’acqua sulla testa di Dago, che ormai aveva perso i sensi. Con le ultime energie rimaste scavò intorno al corpo di Dago e poi stramazzò a terra. Dago si liberò definitivamente e si chinò sull’amico.

 

“Hemal, perché sei qui, mi hai seguito?”

“Ho pensato molto,” disse a voce bassa e stentata. “Ho deciso……. che se il sogno era completamente distrutto, non valeva la pena rimanerci aggrappato…… Volevo tornare a Costantinopoli con te. Credo, però che te ne andrai da solo.”

Furono le ultime parole di Hemal. Dago aveva perso un altro amico fidato. Lui, che non cercava l’amicizia e contava solo su se stesso, doveva ancora piangere per una perdita. La frontiera abissina era là davanti a lui ora. Non aveva più nulla da fare in quella terra. Ma ora aveva una nuova missione da compiere. Caricò il corpo dell’amico su un cavallo e prese la direzione di Derwaba.  Cavalcò tutta la notte  e a mattina inoltrata raggiunse Derwaba. Si fermò davanti al palazzo di Moala. Molti occhi nella capitale osservarono il suo arrivo. Al suo passaggio un rispettoso silenzio Giunti davanti al palazzo della regina, Dago prese in braccio il corpo ormai senza vita di Hemal ed entrò. C’era una riunione in corso. Aluf e il suo seguito avevano dato il via al loro piano. Dago interruppe proprio il discorso del ministro che stava accusando pubblicamente Moala di tradimento.

 

“Hai perduto, Aluf. Sei un serpente a cui deve essere mozzata la testa.” Dago appoggiò il corpo di Hemal a terra e impugnò la sua scimitarra. Aluf si voltò verso quel demone nero.

“Tu! No aspetta, possiamo ancora……” . Dago non gli fece dire altro. Un colpo secco portato con due mani, la scimitarra tagliò di netto la gola di  Aluf  che crollò a terra. Dago aveva vendicato  l’amico. Il silenzio scese sui presenti. Moala impietrita. Ora aveva capito il suo terribile errore.

La voce profonda e minacciosa di Dago ruppe il silenzio.

“Il criminale è stato punito. Ci sono altri colpevoli. Ma non mi interessa. Nulla ormai m’interessa più. Vi lascio al vostro odio, alle vostre stupide ragioni di stato. Alla vostra ambizione che tanto acceca gli uomini. Non valeva la pena di combattere per voi. Soffrire tanto per tornare al punto di partenza.” Moala, piangente per la perdita di Hemal,  cercò di dire qualche cosa.

“Aspetta…..ho commesso un errore, ma…..”

Dago non l’ascoltò. Il rumore dei suoi stivali risuonò mentre attraversava i grandi corridoi. Ecco il portone segnato dal sole gli indicava la via d’uscita da quello schifo. Risalì a cavallo, senza guardarsi intorno. Il solito volto inespressivo e terribile. Solo all’ultimo si voltò e li vide. La folla lo osservava. Silenziosi, sofferenti, disperati. Migliaia di occhi accompagnarono la sua partenza. Per loro Dago era la speranza che li abbandonava. Il cuore di ghiaccio del rinnegato, per un attimo, tremò. Dago gli fece un cenno di saluto, amaro. Poi girò la schiena e toccò leggermente il cavallo con gli speroni. Un mormorio di dolore si levò dalla folla. Il giannizzero nero li aveva lasciati. L’Abissinia per un attimo era tornata a sperare. Purtroppo ora piangeva per un uomo che l’aveva amata più della sua vita e che ancora una volta doveva riporre il suo amore.

 

Leonardo aveva fatto ritorno a Venezia. Il suo incontro con Dago l’aveva quasi ammazzato. Aveva perso entrambe le mani. Nel palazzo che era stato una volta dei Dandolo, c’era un odore acre, pesante di medicine. Il doge Grimani era andata a trovarlo. Ad  attendere il primo cittadino di Venezia, la bella Ortensia Caravelli. La donna non aveva più il sorriso di un tempo, quando trascorreva le sue serate con Marco. Ora era sempre ombrosa,  tesa, segnata dalla sventura, lo sguardo spesso apatico e assente, interrogativo talvolta. Quegli occhi verde smeraldo non luccicavano più. Erano ora infossati. La ragazza più bella di Venezia aveva perso il suo splendore. Un bel fiore che non attira più gli insetti per una qualche misteriosa ragione. Leonardo riposava, ma il suo riposo non era dei più sereni. Il suo vecchio complice, l’uomo con la benda che aveva architettato il piano contro i Dandolo, era davanti a lui. I due uomini avevano stretto nel passato un patto di sangue. L’uno dipendeva dall’altro. Leonardo, ancora dolorante sia nel corpo che nell’anima, si rivolse ironicamente al doge.

“Ah, mio buon doge….che piacere che abbiate trovato un po’ del vostro prezioso tempo per venire  a trovare questo umile servitore.”

“Sono venuto non appena ho potuto. Venezia è una repubblica potente e richiede grande impegno”

“Si, certo. Siete venuto quando non avevate nulla di meglio da fare. Che succede, mio buon doge. Non avete più bisogno del mutilato Leonardo Caravelli?

Il nobile mostrò con rabbia i due avambracci, ormai privi delle mani. Due moncherini. Era un mezzo uomo ormai. Aveva bisogno del servo anche per grattarsi. Dago non aveva completato la sua vendetta, ma il castigo per Leonardo era duro. Forse sarebbe stato meglio morire per uno come lui. Ma si sa, la coscienza ci rende codardi. Meglio sopravvivere, pensava Leonardo. Il Doge osservò quel triste e macabro spettacolo e rispose con tono deciso.

“Tu mi hai servito per cupidigia, caro il mio Leonardo, non certo per lealtà. Sei stato ben ricompensato, mi pare. Non incolpare me delle tue sventure. In Abissinia hai corso un rischio e hai perso.”

“Che faremo con Marco?” Il Doge sospirò e ripetè quel nome maledetto.

“Marco Dandolo…..è incredibile. Dopo tanti anni ancora vivo. Non solo. E’ diventato un grande guerriero agli ordini del sultano Solimano e addirittura il braccio destro del magnifico Gran Visir Ibrahim Pascià”

“Non dimenticare che ha ucciso Kalandrakis e Ahmed Bey. La sue vendetta non è finita. Noi due saremo i suoi prossimi bersagli.”

“Ti preoccupi troppo…”

“Credi? Non l’hai affrontato direttamente e solo io ho potuto vedere quel volto demoniaco. Non è più umano. La sua rabbia l’ha trasformato e non avrà pace fino a quando non ci avrà trovato e uccisi. E tu devi fare qualche cosa. Devi eliminarlo.”

“Devo? Tu ordini a me, il doge?”

“Si, io so troppo sul tuo passato, Grimani. Se non fai uccidere Marco, sono pronto a rendere pubblici i tuoi crimini e tradimenti contro la famiglia Dandolo e il vecchio doge. Lo giuro!”

“Parli per paura…sei sconvolto.”

“Si, ho terrore, ma ancora ragiono. Marco Dandolo, prima o poi, arriverà a noi.”

Il Doge sapeva che Leonardo aveva ragione e poi non poteva rischiare una confessione che l’avrebbe certamente condotto al patibolo.”

“Va bene, va bene. Calmati. Comincerò a inviare delle spie per sapere meglio dove sta e che cosa fa. Quale nome ha adottato fra i musulmani?”

 

Leonardo quasi non riusciva a pronunciare quel nome, quel suo incubo che ormai non lo lasciava più. Anche il suono di quella parola lo spaventava.

 

“Dago……Si chiama Dago.”

 

Il Doge salutò Leonardo e uscì da quella camera da letto, sgradevole al naso a causo delle medicine. Su quel letto giaceva un uomo ferito nell’anima e nell’orgoglio, con una fissazione che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Grimani era consapevole della minaccia costituita da Dago. Per di più, c’erano dei grossi problemi a raggiungerlo ed eliminarlo, vista ormai la sua posizione occupata alla corte del Sultano. Il doge era comunque abile nel complottare e sapeva chi contattare per iniziare la sua guerra personale contro il rinnegato. Roxolana era la chiave. Si, la preferita del sultano poteva aiutarlo ad eliminare il giannizzero nero.

 

 

 

 

Fine prima parte

 

Dago non amava risiedere a Costantinopoli. Non gli piaceva stare vicino agli uomini potenti e agli intrighi di corte anche se ormai era il braccio destro del Gran Visir Ibrahim. Il giannizzero era comunque un uomo ricco. Aveva una residenza degna di un principe. Schiavi al suo servizio che lo osservavano nei suoi gesti quotidiani. Ogni mattina Dago seguiva lo stesso rito. Si lavava nell’acqua gelida, non amava le comodità. Poi prendeva la scimitarra e si allenava duramente percuotendo un tronco. I pasti erano molto frugali. Il suo cuoco aveva rinunciato da tempo a tentare di eccitare i suoi appetiti. Pane nero, verdure bollite e acqua erano gli unici cibi che voleva. Il giannizzero nero viveva come un fantasma. Non parlava con  nessuno e nessuno gli rivolgeva la parola. Un uomo solo, con un solo obiettivo nella vita. Che avrebbe raggiunto prima di morire.

 

Written by dago64

July 7, 2011 at 2:39 pm

Posted in Il Rinnegato

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