Mauro Faina's blog

School Adventures

Archive for September 2011

I golden boys

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Leggendo il libro “Licenziare i padreterni” molte cose si chiariscono. O meglio, si spiegano completamente! Sapete in quale anno è cominciato a schizzare vertiginosamente il debito pubblico: il 1983. In quell’anno, come dice il duo Stella-Rizzo, è cominciata l’aggressione alle casse statali.In pratica lo fondamento sistematico del bilancio preventivo italiano. Sapete chi c’era a palazzo Chigi? Craxi, persona politica che ha pagato per tutti, una vittima, ma sempre una persona facente parte della casta. Ma tenetevi forte, sapete chi c’era fra i golden boys, ossia i suoi consiglieri economici? Tremonti, Brunetta, Sacconi e Siniscalco. Questi signori ci sono ancora oggi e possiamo ritenerli non dico responsabili, ma ingranaggi funzionali del sistema Italia che ha raggiunto il fondo. Nel 1983 l’Italia aveva un pil doppi rispetto all’India (oggi economia crescente), il triplo del Brasile (idem). La Camera costava però un quarto. Si, c’è stato l’euro, tutto è aumentato. Ma vogliamo anche aggiungere che questi politici si sono arricchiti con il fare politica anzichè migliorare il sistema Italia.  I costi di Montecitorio sono cresciuti del 367% (si 367%!), mentre la ricchezza degli italiani del 40% ( e che ricchezza!). Se ci mettiamo il Senato e tutti gli enti statali e parastatali,in pratica i nostri governanti si anno fuori una montagna di denaro. Per difendersi parlano dei costi della democrazia. Ma fatemi il piacere! Nel 1983 la Camera spendeva 600 milioni di lire (868000 euro attuali) per le locazioni. Nel 2011? 35 milioni e passa di euro!!! Ehi i deputati non sono aumentati di numero, sono sempre quelli. E questi sarebbero i costi della democrazia? Ridicoli!!!!!

 

Written by dago64

September 24, 2011 at 5:42 pm

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La Regione Lazio non paga le imprese

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Oggi sul corriere della sera campeggiava il titolo riguardante la Polverini e il debito della regione lazio verso le imprese che hanno lavorato per l’ente. Candidamente la presidente ha detto che la regione è indebitata per, udite udite, 25 miliardi di euro e non può pagare le fatture!!! Ecco, come al solito ci rimette la gente che lavora.

Proprio oggi finivo di leggere l’ultimo libro del premiato due Stella-Rizzo e ho messo in evidenza gli sprechi della mia regione. Vediamone alcuni.

Alla regione Lazio solo una trentina di consiglieri regionali dichiara di possedere un auto. Tutti, ripeto tutti, incassano però sontuosi rimborsi per  spese di trasporto con auto propria! Infatti, per avere il rimborso basta scrivere su un foglio quanti km sono stati percorsi e la regione paga!!! Tutto sulla parola, senza scontrini.

E diciamone un’altra su questa regione spendacciona. Ci sono 20 commissioni in regione (si sa l’Italia è il paese delle commissioni). C’è quella sulla vigilanza sul pluralismo dell’informazione, quella sui giochi olimpici del 2020 etc. etc. etc. (mi piace scriverlo all’anglosassone). Sapete quanto costano? Oltre ai già alti stipendi da consigliere regionale, i presidenti di queste utilissime commissioni prendono 1000 euro, i vice 700 e hanno segretari, portaborse, auto, uffici, arredi…..insomma spese a carico della collettività. Basterebbe dire che chi è consigliere è tenuto a partecipare gratuitamente a suddette commissioni e che usi i loro uffici per riunirsi!!! Ovviamente sono poltrone per accontentare qualcuno. Paga l’onesto cittadino che lavora e che non vede le fatture saldate.

I consiglieri regionali, gente che lavora, che si spacca la schiena. Seeee, ma quando. lavorano 31 giorni all’anno (poi diranno che gli altri li trascorrono sul territorio a fare un cavolo…..visti i risultati. Il loro stipendio. E’ maggiore di quanto prende un governatore americano! Un consigliere regionale tipo italiano becca circa 12000 euro. Il governatore del stato di New York (non uno stato qualunque) 10612. Avete capito bene. Il Trota e la Minetti beccano più soldi del governatore dello stato di New York! Restate con noi, continueremo a parlare di questi ameni discorsi. A che pro? Beh, almeno che tutti sappiano cosa sta succedendo in Italia.

Written by dago64

September 22, 2011 at 8:03 pm

Il Rinnegato – II capitolo definitivo

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II capitolo – Schiavo

La stiva della nave aveva un odore terribile. Il buio intorno a Dago. A fargli compagnia lo squittìo dei topi e il rumore delle catene. Gemiti di dolore, di rassegnazione provenivano dagli angoli scuri di quel posto dimenticato da dio. Rimaneva solo la rabbia a sostenere quel giovane dagli abiti eleganti, ma ormai logori e strappati. Il suo passato di ricco giovane veneziano era lontano. Era prigioniero di pirati a bordo di una galeotta diretta chissà dove. Il Mediterraneo occidentale era da tempo preda dei nuovi pirati mori provenienti dal Nord Africa. Prima Arouj poi il fratello Kheyr-ed-din avevano fatto di quel mare la loro riserva di caccia. Dago faceva parte di un nuovo bottino di schiavi da vendere al mercato di Algeri, la capitale e residenza dei temuti fratelli Barbarossa. Gli infedeli cristiani catturati erano semplicemente merce da rivendere.

 

“Schiavo?”, rimuginava, “ No, fuggirò e tornerò a Venezia e quei bastardi pagheranno.”

 

I suoi desideri di vendetta lasciarono ben presto spazio all’incertezza della destinazione e alla sua nuova condizione di schiavo. In preda a questi pensieri, circondato da relitti umani e da un terribile fetore, Dago si addormentò. Al suo risveglio Dago si ritrovò accanto a un uomo di mezza età, stanco, ma con gli occhi pieni di vita. Una casacca verde a coprire il corpo magro e smunto. Una lunga barba contornava il suo volto. Un semplice codino dei capelli secondo la moda turca scendeva lungo la testa pelata. L’uomo osservò Dago.

 

“Smettila di pensare a ciò che pensi, cristiano. E’ troppo evidente e i turchi sono maestri nel notare queste cose. Sanno trattare e capire gli schiavi.”

 

“Io non sono uno schiavo, vecchio!”, gli rispose Marco accecato dal furore. Sono Marco Dandolo e….”

 

“Qui non sei niente, stupido. Prima lo capirai, meglio sarà per te. Come ti ha chiamato il turco? Ah si, Dago, vero? Sei Dago e siine felice. Hai perfino un nome. Un lusso raro per uno schiavo”. Il tono del vecchio, pacato e gentile, rasserenò per un attimo Dago.

 

“Tu non sembri molto preoccupato….”

 

“Perché dovrei esserlo? Sono stato schiavo degli albanesi finchè sono riuscito a fuggire. Poi sono caduto in mano ai cristiani a Famagosta…prigioniero per cinque anni. Poi sono fuggito di nuovo solammente per essere ricatturato dai pirati mori. Eccomi qui ora.”

 

Dago lo osservò incuriosito e interessato. Forse questo vecchio pieno di risorse poteva fare al caso suo.

 

“Come ti chiami?”

 

“Selim”

 

“Ehi, Selim, forse tu ed io potremo fuggire. Mi sembra che tu hai molta esperienza da vendere”

 

“Prima voglio vedere i nostri padroni. La schiavitù potrebbe essere piacevole.”

 

“Sei pazzo? Come può essere piacevole la schiavitù?”

 

“No, sei troppo giovane per capire. Lo schiavo è un verme, certo, senza futuro e senza dignità. Ma è necessario. Anche il leone ha dei pidocchi. E se il leone è grasso, i pidocchi vivono bene, vedrai!”

 

 

Trascorsero alcuni interminabili giorni scanditi dal lento procedere della galeotta. La stiva era sempre avvolta nell’oscurità e solo all’ora del rancio si poteva intravvedere la luce del sole che filtrava attraverso la botola che permetteva l’accesso. L’odore di escrementi umani era insopportabile e l’umidità si faceva sentire nelle ossa. Vermi e pidocchi la facevano da padroni. Una persona amica poteva alleviare l’orrore e lo schifo e così Dago ebbe modo di approfondire la sua conoscenza con Selim, che aveva attraversato mezzo Mediterraneo e affrontato mille avventure. Soprattutto sembrava un profondo conoscitore dei pirati mori e delle loro abitudini. Dago voleva sapere tutto di quel mondo a lui tanto estraneo.

La galeotta pirata fece diverse soste lungo la rotta che l’avrebbe riportata nelle coste del nordafrica, base del Barbarossa. Solo in quelle occasioni era permesso a Dago e gli altri schiavi di camminare e respirare all’aria aperta lungo il ponte, ma sempre incatenati e sotto il vigile controllo dei pirati mori. La traversata continuò per diverse settimane. Il caldo era sempre più insopportabile. Molti prigionieri agonizzavano. Dago aveva sempre lo sguardo perso nel vuoto e solo i discorsi con Selim lo distraevano dai suoi desideri di vendetta. Una mattina il grido dei gabbiani e un’assordante confusione proveniente dall’esterno svegliò bruscamente i due compari. Un colpo sordo contro lo scafo della nave e il rumore delle catene dell’ancora che veniva gettata erano segnali di una nuova sosta. Si sentiva troppa confusione. Non sembrava il solito porticciolo per la sosta.

Dago guardò con aria interrogativa Selim. I dubbi dei due furono presto interrotti dall’ improvvisa apertura della botola. Una luce accecante illuminò quel putrido buco. Un pirata moro ruggì.

 

“Fuori, vermi! Fuori tutti”.

 

Lentamente quelle figure barcollanti si alzarono e in fila indiana salirono gli scalini della nave. Rumore di tavole smosse e tintinnìo di catene ad accompagnarli. Appena sul ponte della nave, un pesante colpo di frusta colpì la schiena di Dago.

 

“Muoviti, cane! C’è il carico da portare a terra”

 

“Ora io….”

 

“Buono,” la mano ossuta, ma ferma del vecchio Selim lo bloccò da qualsiasi reazione. “Hai detto che ho esperienza, no? Allora lascia che ti insegni alcune cose pratiche, che evidentemente ignori.”

 

Dago desistette immediatamente da ogni reazione e prese una cassa da scaricare.

 

Il sole era già alto . Il porto era un via vai di marinai, schiavi e soldati. Da ogni angolo, grida e schioccare di fruste. Intorno a quelle carni torturate alle prese con il carico delle navi, turbanti di seta a formare un giardino multicolore. Diavoli di un giardino infernale, da cui provenivano solo comandi e colpi di frusta. Selim osservò attentamente e disse a Dago.

 

“Ecco, la città del Barbarossa, il porto dei pirati mori: Algeri.”

 

 

 

Dago e Selim non potevano certo soffermarsi a contemplare il porto di Algeri, quell’angolo d’africa ricco e capitale del Nord Africa. Dovevano scaricare la nave sotto lo sguardo vigile e minaccioso dei loro aguzzini. Ad accompagnarli lo schiocco delle fruste. Uno fra le guardie meglio vestite gridò con veemenza.

 

“Svelti, svelti”.

 

Una flebile, ma ferma voce di uno schiavo rispose seccamente al comando.

 

“Non mi toccare con quella frusta!”

 

“Cosa mormori, immondo verme? Se hai qualche cosa da dire, parla a voce alta. Hussif si interessa ai latrati dei suoi cani.”

 

Con sorpresa di Dago, Hussif vestiva si abiti turchi, ma aveva chiari lineamenti occidentali.

 

“Ehi, ma quell’uomo è un occidentale”.

 

“Già,” gli confermò il vecchio Selim“Ci sono molti rinnegati fra gli uomini di Barbarossa. Hanno abbracciato l’Islam. Cambiano nome e sono peggio dei turchi. Guardati dalla jena che corre tra i lupi, Dago.”

 

Hussif si avvicinò allo schiavo che aveva osato rispondergli.

 

“Allora? Hai qualche cosa da dire, schiavo?”

 

“Allontanati da me, bastardo di un rinnegato!”.

 

Lo schiavo tentò di colpire Hussif, ma venne immediatamente bloccato da due guardie turche.

 

“Tenetelo stretto, credo sia giunto il momento di dare la prima lezione”.

 

La scimitarra di Hussif brillò al sole di Algeri e con un deciso e rapido movimento, piombò sul collo dello schiavo. La testa rotolò sul ponte, il liquido rosso schizzò ovunque. Il corpo ormai senza vita dello schiavo, con un tonfo sordo cadde sul ponte della nave.

 

“Imparate la lezione e vivrete un po’ di più, schiavi. Da qualunque posto voi veniate, scordate chi siete e ciò che avete lasciato. Ora siete ad Algeri e qui i padroni siamo noi. Non abbiamo pazienza e questa è la punizione per coloro che osano ribellarsi. Tenetelo a mente”.

 

Gli schiavi osservarono in silenzio. Dago tentò di frenarsi, cercando di seguire il consiglio del suo nuovo amico.

 

“Ehi, tu hai capito cosa ho detto?”, Hussif si rivolse proprio al giovane veneziano.

 

“Si, ho capito quanto dici, padrone.”

 

Il tono fermo e senza esitazione lasciò perplesso Hussif.

 

“Non lo credo, schiavo. Ma ti concedo il beneficio del dubbio. Oggi la mia sete di sangue è stata placata. Al lavoro!”

 

Dago prese la cassa e percorse la passerella fra la nave e il porto. Il suo lavoro di schiavo era iniziato. Algeri gli aveva dato il benvenuto.

Algeri, fortezza sul mediterraneo, base dei corsari arabi e capitale del regno di Kheyr-ed-din, fratello di Arouj, che era riuscito a consolidare la posizione dei pirati turchi nel mediterraneo, vero flagello di qualsiasi galera si avventurasse in mare aperto. Carlo V nel 1518 aveva inviato una spedizione di diecimila veterani per ridurre il potere di Arouj. Nella battaglia che seguì vicino Algeri, Arouj trovò la morte. Primo di una potente tribù islamica e grande soldato, il pirata aveva un fratello minore che riuscì nell’impresa di mantenere il regno costruito dal fratello e stabilire una grande alleanza con Solimano. Il suo nome era Khizr, ma era noto ai musulmani sotto il nome di Kheyr-ed-din e ai cristiani sotto quello di Barbarossa. Il pirata e condottiero seppe unire alla scienza militare e all’audacia, la prudenza dell’uomo di stato, ciò che lo portò dal livello di semplice capo pirata alle cariche più alte dell’Islam. Algeri era la capitale del Barbarossa. Il nido dei pirati mori, in guerra perenne contro Carlo V. Da qui partivano le galere che razziavano e terrorizzavano le coste dell’Europa meridionale. L’incubo del mediterraneo.

 

Dago era prigioniero di questo incubo. Alcuni giorni erano trascorsi dal suo arrivo ad Algeri e lui e Selim avevano avuto modo di provare le fatiche dello schiavo e la frusta di Hussif. Il loro crudele padrone. Un mattino, si presentò al porto un cavaliere dal turbante nero. Lanciò un’occhiata attenta agli schiavi.

 

“Quanto valgono queste bestie, Hussif?”

 

“Poco, signore. Al massimo serviranno per la pesca delle sanguisughe. Le donne, poi, spaventerebbero anche il demonio.” Rispose il rinnegato con fare ossequioso.

 

“Ci penserà Abdul a rivalutarli. Domani portali al mercato e consegnali a lui. Certamente sarà capace di ricavarne un prezzo ragionevole.”

 

“Va bene, mio signore” rispose con reverenza Hussif. “Abdul potrà dimostrare di essere un mago potentissimo”.

 

Il cavaliere si allontanò e Hussif tornò ai suoi schiavi. Dago e Selim, come al solito alle prese con casse da caricare e scaricare, lo osservavano.

 

“Quel rinnegato, se potessi ucciderlo”

 

“Calma, Dago. Che ci guadagneresti? Ne troverai molti come lui e non puoi sterminare tutta la specie. Pensa alla tua pelle e a rimanere vivo. Il resto potrebbe essere molto pericoloso”.

Si, Selim riusciva a tenere a freno Dago, ma il giovane veneziano era sul punto di esplodere. Non poteva accettare quella nuova vita senza lottare, senza reagire. Una rabbia indescrivibile lo guidava.

 

Dago era spesso accompagnato dal desiderio di morte. Sembrava che solo la violenza potesse placare la sua sete . Era come un cane rabbioso pronto a mordere. Selim tratteneva a stento quell’uomo che voleva dispensare morte. Sapeva che prima o poi non l’avrebbe trattenuto dal commettere una sciocchezza.

 

Non c’erano feste nella vita degli schiavi. Solo fatica e dolore. Ogni giorno uguale all’altro, la fatica come unica compagna. Erano delle candele che lentamente si consumavano. Una mattina otto galeotte turche rientrarono al porto, di ritorno dalle razzie lungo le coste italiane. Erano piene di merci, ma soprattutto di schiavi. Fra questi una coppia, distinta e ancora sotto choc. Chissà dove erano stati catturati. Improvvisamente l’uomo si avvicinò a Hussif, che presiedeva come al solito l’arrivo dei nuovi schiavi.

 

“Signore, devo parlarti. Ho una grazia da chiederti.”

 

“Una grazia? Tu? Un bastardo cristiano? Torna al tuo posto, prima che ti faccia frustare a sangue.”

 

“Aspetta, o mio signore. Ho un diamante nascosto. Sarà tuo se farai in modo che mia moglie ed io possiamo rimanere insieme.”

 

“Mmmmm, un diamante.” Gli occhi di Hussif si accesero. “Questo potrebbe cambiare molte cose. Mostrami questo gioiello.”

 

“Ci lascerai insieme? Giuralo”

 

“Lo giuro, lo giuro, in nome di Allah. Ed ora mostrami quel diamante”.

 

L’uomo estrasse da una tasca nascosta all’interno della sua giubba un grosso diamante, di inestimabile valore a prima vista.

 

“Guarda, guarda, credevo vi avessero perquisito bene. Come lo hai nascosto?”

 

“Quando ci hanno catturato, l’ho ingoiato e poi l’ho nascosto per bene fra le mie vesti. Ero gioielliere. Ora mantieni la tua promessa.”

 

Hussif scoppiò a ridere, rigirando il diamante fra le sue dita.

 

“Ah ah ah, è vero la promessa. Soldati, portate quella strega al mercato del porto e vendetela. Non importa se il prezzo sarà basso. E portate via il suo uomo.”

 

Alle sue parole, il gioielliere si scagliò contro Hussif e il diamante rotolò per terra. Selim, pronto e lesto, lo raccolse e lo consegnò al rinnegato.

 

“Eccolo, nobile signore. Non abbassarti a frugare nella polvere.”

 

Mentre la coppia veniva portata via verso un orrendo destino, Hussif studiò il vecchio che aveva davanti.

 

Hmmm, vedo che sei veloce e furbo. Hai altre qualità?”

 

“Leggo e scrivo, mio signore. Parlo turco, greco, persiano e italiano. Sono veloce coi numeri. Mi chiamo Selim.”

 

“Bene, Selim. Domani presentati al mio segretario. Ti farà lavorare nei magazzini. E ricorda. So essere generoso, ma uso la frusta con chi non mi serve bene.”

 

Selim, in segno di gratitudine, s’inginocchiò. “Lo ricorderò, luce di Allah.” Dago osservò la scena e maledisse l’amico mille volte. Selim aveva cominciato le sue lezioni, ma Dago sembrava non capire.

 

“Miserabile verme! Dovrei romperti il collo!”

 

“Uufff sei insopportabile, giovane testardo cristiano. La tua istruzione richiederà tempo e pazienza. Lavora adesso. Risparmia il fiato per arrivare fino a sera.”

 

Altre ore interminabili fino a sera. Avanti e indietro, su e giù, da una stiva all’altra, da un magazzino all’altro, trasportando e scaricando i bottini di guerra delle navi dei pirati o le merci preziose di tutto il mediterraneo, che alimentavano il fiorente mercato di queste parti. Dago lavorava, lavorava, uno schiavo tra gli schiavi, una bestia tra le bestie. Nient’altro. La dolce laguna era lontana, il ricordo cominciava a svanire. Solo l’odio lo sosteneva. Finalmente arrivò la notte. Una tregua senza sollievo, con il silenzio rotto dai lamenti dei poveri uomini in schiavitù. C’è chi moriva nel sonno, senza accorgersene. C’è chi invece esalava l’ultimo respiro fra atroci grida. Dago si guardò attorno.

 

“Non reggeremo a lungo,” pensò.

 

La specie di dormitorio prigione degli schiavi si trovava a ridosso del porto. Una sola via d’accesso, mal controllata. Nessuno poteva fuggire da Algeri, tanto meno i cristiani. Non c’era galea che avrebbe aiutato un fuggitivo e il deserto impediva qualsiasi fuga via terra. Come giaciglio Il freddo e duro pavimento , come bagno un semplice anfratto seminascosto nell’edificio. Poca igiene e caldo asfissiante. Ci si ammalava facilmente di febbri che potevano condurre in breve tempo alla morte. Il riposo era spesso una tortura, ma l’alba era come una condanna. I minacciosi turbanti delle guardie giunsero come al solito al dormitorio degli schiavi imprecando e facendo roteare le fruste. Dago e Selim si alzarono precipitosamente nonostante le ossa doloranti per non ricevere qualche colpo di frusta. Hussif fece un cenno a Selim.

 

“Ehi, tu, bastardo. Devi lavorare nei magazzini, muoviti!”

 

“Arrivo, signore”, rispose Selim ancora mezzo addormentato. Il portone della casa dormitorio venne aperto per far uscire lo schiavo e un raccapricciante spettacolo gli diede il buongiorno

 

Poco distante, appeso a faccia in giù ad un palo, il corpo martoriato del gioielliere.

 

“Guardate schiavi!” urlò Hussif. “non minaccio invano.”

 

Alla vista del corpo, Dago venne assalito da una cieca follia. Malgrado le catene alle mani, si scagliò contro il rinnegato e lo buttò a terra, riempiendolo di pugni e calci. Hussif era già una maschera di sangue prima che due suoi sgherri potessero intervenire a bloccare il veneziano.

 

“Hai imparato, bastardo di un rinnegato?”, gridò Dago, “ Peccato non abbia potuto ucciderti.”

 

Hussif, con il volto pieno di sangue, dolorante per i colpi ricevuti, si rialzò.

 

“Ti sei tolto il gusto eh? Ora pagherai. Ti scuoierò vivo, ti farò pentire di essere nato.”

 

Selim osservava la scena a distanza e non potè far altro che condannare l’azione eroica, ma stupida dell’impetuoso Dago. Attirati dal trambusto, un gruppo di soldati a cavallo che scortavano un alto dignitario si avvicinarono al luogo dell’aggressione.

 

“Hussif, cane rinnegato, smetti di giocare con i tuoi pari, quando arrivo io.”

 

“Perdonami, nobile signore. Questa carogna mi ha aggredito selvaggiamente e……”

 

“Risparmiami la tua storia. Kheyreddin vuole avere subito il dono del sultano. Portalo personalmente a palazzo.”

 

“Lo farò, nobile signore.”

Un dono dal sultano. Barbarossa aveva giurato fedeltà a Solimano il magnifico e questo lo ricambiava con doni e privilegi. L’esercito turco e i pirati del Barbarossa costituivano un’armata invincibile per gli eserciti cristiani. I turchi avrebbero ben presto dominato l’Europa sia in terra che in mare. Uno scontro di due grandi civiltà si profilava all’orizzonte e il risultato non era certo. Barbarossa costituiva un grande aiuto alle mire del Magnifico.

 

Dago ebbe un attimo di tregua. Fu incatenato mentre Hussin a malincuore si affrettò verso i suoi magazzini, per recuperare il dono del sultano inviato al Barbarossa.

“Appena torno da palazzo, finirò ciò che ho iniziato, maledetto cristiano.”

“Io sputo su di te, assassino di gente inerme”.

 

Il volto di Dago era solo una maschera d’odio, un uomo ormai senza destino, ma che ancora combatteva per una causa giusta. La sua.

 

Il palazzo del Barbarossa si trovava al centro di Algeri. Elegante, ma non sfarzoso. Barbarossa amava le comodità, ma era uomo d’azione e non seguiva sicuramente le mode e i vizi di altri principi turchi. Coloro che entravano a palazzo sentivano un nodo di paura allo stomaco. Troppa gente non era tornata da quell’edificio. Voci calme e inespressive accolsero Hussif. Ma lui non ascoltava. Doveva solo onorare il suo sovrano Kheyreddin con l’oggetto di Solimano. Entrò in un grande salone che attraversò camminando lungo un tappeto rosso con devozione e paura. Davanti al trono del Barbarossa s’inginocchiò e porse con riverenza il cofanetto con il dono del sultano.

 

Davanti a Hussif si ergeva la figura imponente del re del Mediterraneo. Kheyr-ed-din. La sua statura era superiore alla media, il suo portamento maestoso; ben proporzionato e robusto; villosissimo, portava una barba folta e arruffata; le sue ciglia e sopracciglia erano assai lunghe e spesse. I capelli castani lucenti leggermente brizzolati. Un uomo forte, intelligente che si era dimostrato un abile diplomatico. Appena preso il potere alla morte del fratello Arouj, aveva inviato un’ambasciata a Costantinopoli per fare formale offerta della sua nuova provincia al Magnifico che non esitò ad accettare l’offerta di questo imponente territorio del Nord Africa. Il Barbarossa era umile vassallo del sultano con il titolo di Begleberg, governatore generale di Algeria. Era una specie di vice rè, certo sottoposto a Solimano, ma la distanza era sua alleata. Poteva organizzare il suo territorio come voleva, senza che Costantinopoli interferisse. Solimano era solito inviare presenti ai suoi fedelissimi. Questo regalo era un altro segno di riconoscenza. Barbarossa osservò l’oggetto e lo prese dalle mani tremanti di Hussif

 

“Il dono del sultano eh? Solimano fa bene a coprirmi di regali. Lui sa che Barbarossa è l’unico che possa fermare le flotte cristiane.”

 

Ma l’apertura del cofanetto rivelò una sorpresa.

 

“Ma che cos’è questo?” Barbarossa rovesciò la scatola e solo un pugno di sabbia ne uscì.

 

“Spiegamelo, Hussif. I sigilli sono rotti e il cofanetto è pieno di sabbia. Non credo che Solimano invii dono del genere.”

 

“Non capisco, signore, non l’ho nemmeno toccato e non ho rubato nulla.”

 

“So che non l’hai fatto, ma è evidente che non hai saputo custodirlo. Ora andrai a occupare il posto nel cofanetto, o almeno lo faranno le tue ceneri.”

 

 

 

La crudeltà di Kheyreddin era nota. Non tollerava gli errori. Chi sbagliava andava incontro alla morte.

 

Le guardie del Barbarossa non persero un minuto a incatenare Hussif e a condurlo verso il suo triste destino. Altro lavoro per il boia di Algeri. La scimitarra questa volta era per il rinnegato Hussif.

 

Al porto intanto, Selim e Dago, in un raro momento di tregua, osservavano il mare. Il vecchio aveva tra le dita sudice delle pietre multicolori.

“Osserva, mio giovane amico. Potrei comprarci un impero e solo uno stupido come Hussif poteva lasciare incustodito il cofanetto nei suoi magazzini. Queste pietre significano la morte per colui che le possiede. Ecco, diamole ai pesci così nessuno le troverà. Barbarossa ha molta memoria”

 

Lentamente i preziosi affondarono nell’acqua putrida del porto. Avrebbero potuto fare la fortuna di molti uomini. Ma ad Algeri avrebbero significato solo morte.

 

“Non capisco, Selim, perché l’hai fatto? Hai sacrificato ciò che avevi già ottenuto, un incarico sicuro e tranquillo con Hussif. Perché?

 

“Forse perché anche il saggio si sforza di essere tale. Forse perché non ho mai avuto un figlio”

 

“Continuo a non capire”

 

“Logico,” sorride il vecchio. “neanche io mi capisco bene. Ma sono soddisfatto. Oggi il pidocchio ha distrutto il leone. Non succede spesso.”

 

La mezzaluna tagliava in due il cielo e si rifletteva livida sulle acque del porto di Algeri. Un altro giorno era trascorso. Ma non era uguale agli altri. C’era una giustizia qualche volta su questo mondo. Due uomini non avevano perso tutte le speranze. Combattevano e vivevamo. Non avevamo futuro, ma non si volevamo arrendere.

Il giorno dopo, il sole salutò il giorno di mercato ad Algeri. Giorno di caos, di rumore, di nubi e di mosche sulle merci esposte. Grida ovunque, canti, imprecazioni. Cinguettio di uccelli proveniente dalle gabbie di legno. Tintinnio dei sonagli dei cavalli di tiro. Dago e Selim attendevano di essere venduti. Hussin era ormai un ricordo. Non si sentiva nell’aria la sua frusta con sollievo di tutti. Ma quegli uomini sapevano di far parte di quelle merci. Assomigliavano a quegli uccelli nelle gabbie di legno. Erano in vendita. Arrivarono ai margini del grande mercato presso un grande spiazzo. Da un lato gruppetti di possibili compratori li osservavano interessati. Al suono delle fruste gli schiavi furono allineati. Dago si tratteneva a stento, stringeva i pugni e fremeva. Non era questo il comportamento adatto per salvarsi, ma Selim aveva deciso di essere paziente con il suo figlio adottivo. Un maestro doveva esserlo.

 

“Ora studieremo i compratori. Dobbiamo sceglierci bene il padrone.” Gli sussurrò Selim

 

“Scegliere? Noi?” Gli rispose incredulo Dago.

 

“Si, Dago, ora cerco di farti capire. Vedi quel grasso turco? I suoi schiavi al seguito sono magri e malvestiti. E’ un avaro. Se ti guarda durante le offerte, fissalo con durezza, lo offenderai e non ti comprerà. Quel vecchio, invece non è niente male. I suoi schiavi sono curati, e pare anche in buona salute. Se offre denaro per te, sorridi!

 

Il discorso di Selim fu interrotto da Abdul, l’abile venditore che con la frusta in mano, attirava l’attenzione di tutti i mercanti intervenuti.

 

“Osservate amici, il meglio nel regno del nostro signore Barbarossa. Schiavi forti, capaci di lavorare dall’alba al tramonto. E a prezzi modici.

 

Fra i possibili compratori, nobili di tutte le specie. Dalla tenda di una portantina con le tende rosse, un braccio fasciato e maleodorante fece un cenno verso una schiava cristiana.

Intanto Ibrahim, noto mercante di Algeri, osservava le dentature e quando fu il turno di Dago, si ritrovò con una falange spezzata dal morso terribile del veneziano. Un grido risuonò per il mercato. Ibrahim sanguinava. Selim osservava la scena preoccupato.

 

Di nuovo il tendaggio della portantina si aprì e il braccio fece un altro cenno ad indicare Dago.

 

“Venduto al nobile Piris Baja. Solo un saggio come lui poteva apprezzare il valore della merce senza badare ai piccoli dettagli della cattiva condotta. Allah lo benedica.”

 

Abdal tirò un sospiro di sollievo, aveva evitato inutili ripercussioni.

 

“Dio ci protegga,” esclamò uno schiavo. “E’ lui, Piris Baja, il lebbroso!”

 

Selim non perse tempo. Non voleva abbandonare Dago. Fece un passo avanti e guardò con ammirazione e soddisfazione all’indirizzo della levantina di Piris. Abdal ignaro della manovra di Selim, continuò la sue vendita.

 

“Ecco a voi un geniale conoscitore di tante lingue. Legge, scrive e fa di conto. Un eccellente organizzatore.”

Di nuovo l’inquietante braccio indicò il vecchio. Anche Selim farà parte degli acquisti di Piris, il lebbroso. I nuovi acquisti furono condotti verso la portantina di Piris Baja e il suo seguito. Non si perse tempo. La carovana si rimise in marcia, seguita dagli schiavi e dalla scorta. Selim e Dago avevano un nuovo padrone. Le voci del mercato erano ormai un ricordo. Un nuovo destino, oscuro e misterioso li aspettava. La dimora di Piris non era così vicina. Fra gli schiavi si mormorava almeno un giorno di marcia nella sabbia, sotto il sole cocente. Al tramonto, Dago e Selim poterono vedere all’orizzonte un palazzo. La residenza di Piris Baja, il lebbroso!

 

“Pare che ci siamo,”mormorò Selim. “Evidentemente Piris Baja non ama vivere in città”

 

“Comprensibile, con il suo puzzo la spopolerebbe in un’ora.”

 

Gli schiavi vennero accompagnati in una grande costruzione adiacente le stanze del nobile Piris. Il sovrintendente scelse proprio Dago e Selim per il primo incarico. Un grande calderone pieno d’acqua troneggiava nella stanza. Sotto un forno di pietra a scaldarlo. Uno schiavo si occupava del fuoco, l’altro lo alimentava e un paio portavano le otri d’acqua su per la scalinata fino al grande pentolone.

 

“Lavorerete qui, cani. Il nobile Piris Baja ha bisogno continuamente di acqua calda per combattere i dolori della sua terribile malattia”

 

I giorni successivi furono un autentico inferno. Il lavoro si fece sempre più ossessionate. Il lebbroso aveva bisogno sempre più di acqua calda. Dago e Selim erano addetti al fuoco e non avevano un momento di tregua. Il caldo era infernale. Il vapore insopportabile. Pochi i momenti di pausa e in uno di questi, Dago e Selim assistettero allo spettacolo preferito di Piris, i combattimenti fra lottatori professionisti fino alla morte. Due uomini possenti lottavano nel cortile del palazzo, il sangue delle ferite bagnava la sabbia. Scene di violenza inaudita si presentarono agli occhi del veneziano, rumore di ossa rotte, arti spezzati fino ad assistere al massacro finale di uno dei due contendenti. Dago, forse esausto dal lavoro, non riuscì a starsene in silenzio di fronte al bagno di sangue, ignorando le raccomandazioni di Selim.

 

“Maledetto assassino! Chi si diverte a uno spettacolo simile merita di marcire all’inferno!”

 

Dal balcone la mano bendata strinse la tenda bianca e si fermò un attimo. Poi si ritrasse.

 

“Sei pazzo? Non hai imparato nulla? A che ti serve sfidare chi è più forte di te?”

 

“Non potevo sopportare. E’ stata una morte selvaggia e stupida”

 

Selim sospirò. Dago si era firmato la condanna a morte. Non c’era pietà per coloro che i ribellavano al volere di Piris. Qualche minuto e una delle guardie condusse Dago dal lebbroso.

 

Le stanze al secondo piano del palazzo erano piene di profumi. L’aroma dell’incenso ovunque. Ma a fatica coprivano quell’odore spaventoso, di putrefazione, proveniente dalla camera da letto di Piris. Due soldati ordinarono a Dago di entrare. Alla vista del nobile, Dago ebbe un sussulto. Davanti a lui il volto devastato dalla lebbra. Un occhio coperto di croste, un naso ormai inesistente. E le bende a coprire il resto del corpo. Dago rimase sconvolto da tale visione

 

“Oh, mio dio!” Esclamò il veneziano.

 

“Avvicinati, Cristiano. Ti faccio orrore? E’ logico. Sono orribile. Un morto vivente. E ciò mi fa odiare tutto quanto è vivo. Come te. Ti ho sentito, vorresti che io marcisca all’inferno. Sai, le mie ossa, la mia carne, già sono prede dell’inferno. Ma non ci andrò da solo. Molti mi accompagneranno e tu sarai uno di questi. Guardati. Sei bello, possente, invincibile. Voglio divertirmi a vederti morire lentamente fra mille dolori. Combatterai contro il mio lottatore indù più forte, potrai salvarti la vita solo se riuscirai a ucciderlo. Ma ho molti dubbi in merito. Andrai prima tu all’inferno, bastardo di un infedele. Portatelo via e preparatelo per lo scontro.”

 

Altri schiavi entrarono nella stanza e versarono acqua calda nella grande vasca da bagno in cui Piris era immerso. Le guardie portarono Dago nel cortile, dove avrebbe affrontato il lottatore indù. L’avversario di Dago era ora di fronte a lui. Era imponente, praticamente imbattibile. Dago non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi allo scontro. Il lottatore lo afferrò brutalmente, colpendolo ripetutamente al volto e allo stomaco con il famigerato nuki kokutsi, una specie di ferro con lunghe punte applicato sulle nocche. Dago sembrava perduto. Dal balcone le grida di incitamento di Piris all’indirizzo del suo campione.

 

“Uccidilo. Uccidi quel maledetto cristiano. E’ giovane e sano! Perché deve vivere mentre io muoio? A morte!”

 

Dago era ormai sulle ginocchia. Bisognava fare qualche cosa per salvarlo. Selim si defilò dalla scena del combattimento e dalla stanza dell’acqua, prese un’anfora e la riempì di uno strano acido, usato per la pulizia dei pavimenti. Altamente corrosivo. Furtivamente salì le scale fino alle stanze di Piris. Si unì agli altri schiavi in fila per versare l’acqua. Qualche istante e potè entrare. Con fare gentile si rivolse al lebbroso.

 

“Altra acqua calda, mio signore?”. “Certo, che aspetti?”

 

Selim non perse tempo e versò il contenuto velenoso dell’anfora nella grande vasca d’oro. Nell’acqua una strana vita. Bollicine e gorgoglii. Piris fu avvolto da una nuvola di vapore assassino e si perse nell’acqua della vasca con un grido acuto di dolore. Selim aprì la tenda del balcone e annunciò la morte del nobile lebbroso.

 

“Solo Allah possiede la verità! Il nobile Piris Baja è morto! Il profeta ha finalmente accolto la sua anima. Finalmente ha smesso di soffrire.” Tutti si guardarono increduli. Il malvagio signore era morto. Finalmente.

L’annuncio ebbe un effetto immediato. Il lottatore indù, prossimo a finire Dago, smise di combattere e diede la mano al suo avversario. Le guardie corsero a incatenare gli schiavi, pronti ad accogliere i prossimi cambiamenti. La maledizione era finita. Dago, malconcio, ma vivo, fu condotto in una stanza per essere medicato. Ad accoglierlo Selim.

 

“Selim, sei stato tu?”

 

“Sei un pessimo schiavo, Dago. Ti sei salvato di nuovo, ma non so per quanto potremo continuare. Sei troppo impulsivo.”

 

“Selim, grazie”

 

“Chiudi il becco. Pensa che domani torneremo ad Algeri. Troveremo un nuovo padrone.”

 

Selim aveva ragione. Quella inquietante dimora in mezzo al deserto non aveva più ragione di esistere. I fedeli di Piris non avevano sostentamento e avrebbero dovuto per forza tornare sulla costa alla ricerca di un nuovo padrone. Ma tutto sommato fu un sollievo per tutti. La cieca rabbia di Piris era finita.

Gli schiavi, prima dell’alba, vennero radunati e incatenati. Erano pronti a tornare ad Algeri. Il palazzo in mezzo al deserto sarebbe stato ben presto una rovina dimenticata.

La carovana fu accolta dalla voce del Muezzin che si alzava nell’alba grigia, acuta e solitaria a cantare la gloria di Allah, pietoso e amato. I minareti di Algeri dominavano imponenti sulla città. All’orizzonte il sole stava nascendo. Allah è grande. Ma gli schiavi non sapevano nulla di questa grandezza. Sapevano solo che il nascere di un nuovo giorno significava per loro una maledizione. Un lavoro massacrante, le frustate, la possibilità di morire ad ogni istante. Qualcuno ci provava a reagire, mosso dall’orgoglio. Ma le guardie avevano ordini precisi. Ogni tentativo, anche piccolo, di ribellione, doveva essere punito con la morte. Gli schiavi che sapevano frenare e controllare la loro rabbia, sarebbero vissuti certamente più a lungo. Dago sembrava aver capito la lezione. Si rivolse con fare sottomesso alle guardie che lo presero in consegna con il fidato Selim. Le riempì di elogi e si prostrò di fronte a loro. Aveva imparato. Certo, non era stato difficile. Se al cattivo alunno toccava la morte, ogni altra alternativa era benvenuta.

 

Il tempo passava. Dago e Selim erano stati assegnati a un nuovo lavoro. Dovevano fare pesanti lavori di manutenzione immersi fino alla cintola nell’acqua. Un colpo di tosse richiamò l’attenzione di Dago.

 

“Non stai bene, Selim?”

 

“Alla mie età non si sta mai bene, Dago. Siamo castelli che crollano senza bisogno di arieti”

 

“Stasera parlerò con il capo perché ti faccia riposare qualche giorno”

 

“Splendido. Sei sempre un povero illuso. Chiedigli che ti abbassi anche la luna. Hai le stesse probabilità di udire un si.”

 

Dago si sentì come non mai impotente. Non poteva far nulla per aiutare l’amico, e trascorse il resto della giornata a pensare il da farsi. Scese la sera. Finalmente il riposo. Selim sputava sangue. I polmoni non gli reggevano. Mai come adesso si sentiva alla fine del suo tribolato cammino. Dago vegliò per tutta la notte il vecchio. Ne ascoltava i lamenti sommessi, una lotta disperata contro la morte. I poveri ripari in cui erano sistemati gli schiavi non permettevano alcun tipo di cura.

 

La mattina seguente Dago provò con un’estrema richiesta alle guardie.

 

“Selim ha bisogno di riposo, signori. E’ possibile?”

 

“Mmm, sembra che il vecchio non durerà molto. Allora che si riposi mentre sposta le pietre dal fondo del mare. In marcia e silenzio.”

 

Ormai rassegnato, Dago aiutò l’amico ad alzarsi.

 

“Ehi, miserabili cani”.

 

Un soldato in alta uniforme richiamò l’attenzione delle guardie.

 

“La nostra barca si è arenata vicino alla riva. Ho bisogno di braccia forti. Portate quei rifiuti per disincagliarla.”

 

Le due guardie lo guardarono con disprezzo. “E chi ci sarebbe su quella barca per consentirti di urlare così, figlio di una scimmia lebbrosa?”

 

“Il Beylerbey. Ti basta, verme?”

 

“Il……..perdonami, nobile amico. Come potevo sapere? Io…”

 

“Chiudi quella cloaca che hai per bocca e muoviti. Il Beylerbey non è paziente.”

 

Alcuni schiavi vennero radunati e condotti verso la vicina spiaggia, dove, poco distante dalla riva, una massiccia imbarcazione giaceva arenata. Dago era fra loro. Il gruppo di schiavi si posizionò intorno alla barca e il veneziano lanciò un’occhiata a bordo. Il sangue gli si gelò. Barbarossa in persona. Un grande turbante con un prezioso diadema copriva la testa del pirata di Algeri. Indossava un prezioso abito blu sormontato dal mantello con una fascia rossa a cingere la vita. Una lunga barba rossiccia, curata e morbida, gli adornava il viso.

 

“Per questo i guardiani sono tanto spaventati,” pensò Dago.

 

Guidati dalle guardie, gli schiavi tentarono di disincagliare la barca. Ma il giovane veneziano non partecipava. Un rapido movimento e senza che gli altri se ne resero conto, inclinò pesantemente la barca. Barbarossa cadde in acqua come un sacco di patate. Dago chino sul pirata allungò una mano.

“Che Allah ci perdoni, nobile signore della guerra, lascia che ti aiuti ad alzarti.”

 

“Non mi toccare, carogna. Credi che non sappia camminare?”

 

“Come potrei pensare questo, del grande Kheyreddin? Io, infimo granello di polvere di fronte alla montagna d’oro della sua grandezza?”

 

“Lasciami, ho detto. Faccio da solo.”Con uno strattone Barbarossa si liberò di Dago e si rimise in piedi. Bagnato e umiliato, Barbarossa imprecò verso tutti. La barca era ora libera. Barbarossa, circondato dai suoi soldati, saltò di nuovo a bordo. L’imbarcazione si allontanò velocemente. Dago aveva uno sguardo compiaciuto, quasi di vittoria.

 

“Il grande Barbarossa perde facilmente le staffe eh?”

 

“Già,” risponde tossendo Selim.”Ma altri pazzi possono perdere anche più facilmente la testa. Perché l’hai fatto?”

 

“Perché hai bisogno di riposo e l’unico modo per averlo è pagare. Guarda, mentre l’aiutavo a rimettersi in piedi, gli ho rubato questo diadema di rubini rossi. Non credo che i guardiani rifiuteranno un tale gioiello. Barbarossa è stato generoso senza saperlo.”

 

“Sei pazzo”

 

“Forse. Ma non è questo il momento di discuterne”.

 

Scese di nuovo la notte. E con essa la febbre, la terribile lotta dei polmoni per l’aria affliggeva il povero Selim.

 

“Domani non potrò alzarmi.”

 

“Domani non dovrai alzarti. Smonterò i diamanti dal diadema e comprerò riposo, medicine e cibo. Guarirai.”

 

“Ammiro il tuo ottimismo”.

 

Improvvisamente una torcia nell’oscurità del porto illuminò il rifugio di fortuna in cui Dago e Selim stavano riposando.

 

“Tu, bastardo! Vieni fuori”, urlò la guardia.

 

“Io, perché?”

 

“Muoviti, ho detto fuori! E preparati!”

 

Dago venne trascinato a forza fuori in strada. Venne scaraventato a terra e, davanti a lui, un uomo a cavallo con un volto che sembrava fatto di pietra. Attorno a lui, quattro giannizzeri turchi.

 

“Molto astuto, cristiano. Solo quando mi sono accorto che mi mancava la spilla ho capito ciò che era successo. Astuto e pazzo. Credevi di poter derubare Barbarossa e restare impunito?”

 

“Io….”

 

Dago non riuscì ad aggiungere nulla. Barbarossa lo incalzava

 

“Non sprechiamo parole. Ridammi la spilla e avrai una morte rapida. Non nego che in fondo ammiro il tuo coraggio. Ma ho cose più importanti di cui occuparmi.”

 

“Mi dispiace, Beylerbey. Non posso restituirtela!”

 

A queste parole le fruste delle guardie colpirono pesantemente il veneziano, che stramazzò di nuovo a terra. Il sangue uscì copioso dalla schiena martoriata, ma rimase fermo nella sua decisione di non restituire il gioiello rubato. Barbarossa lo osservava.

 

“Mi stupisci sempre di più, cristiano. Non capisci la tua situazione? Una morte rapida sarà per te un dono divino.

 

“Lo so. Ma non posso ridarti la spilla.”

 

Altre frustate lo costrinsero a gridare dal dolore lancinante e venne trascinato via verso degli alberi a cui venne legato saldamente. Le terribili fruste delle guardie del Barbarossa lo colpivano ripetutamente. Ormai era l’alba. Le frustate divennero veri flagelli divini. Grandine, uragano sulla sua schiena. No, Dago non parlava. Sapeva che ne andava della vita del suo amico Selim. Lui aveva bisogno di quel gioiello. Le percosse e le frustate proseguirono per ore. I carnefici si davano il cambio esausti. Il sole cominciò a illuminare quella radura di violenza e sofferenza. Il rosso del primo giorno si riflettè sulla schiena sanguinante di Dago. Un ufficiale del Beylerbey si avvicinò al suo signore.

 

“Guarda, mio re, è ormai mattino inoltrato, ma lo schiavo non ha ceduto”

 

“Basta, ormai sappiamo chi è il più forte. Non serve continuare questa tortura. Non so quale sia il motivo per tacere, ma deve essere troppo forte. Eh sia, decapitatelo.”

 

“Un momento, Beylerbey, lasciami dire qualche parola.”

 

Selim si reggeva a stento, ma era riuscito a raggiungere la radura.

 

“E tu chi sei?” Tuonò il Barbarossa.

 

“Io sono la ragione del furto. L’ha fatto per salvarmi. Era disposto a farsi uccidere per questo. Ascolta, Beylerbey. Che cosa dice Allah su chi sa amare tanto i propri amici? Eccoti la maledetta spilla. E’ troppo tardi perché possa salvarmi la vita. Ma sarebbe triste che troncasse quella del giovane cristiano. Pensaci, Beylerbey. Cerca un po’ di commozione nel tuo cuore. Hai tutto ciò che un uomo può desiderare. Noi, invece, abbiamo solo la nostra amicizia. Per questo siamo pronti a morire per essa senza paura.” Selim diede il gioiello al Barbarossa e cadde a terra, privo di forze. Il vecchio aveva fatto l’ultimo sacrificio per il suo amico e figlio Dago.

 

“No, Selim, non morire!” Gridò Dago.

 

“E’ il momento. Che Allah e il tuo dio cristiano ti proteggano, figlio mio.”

 

“Selim….no!”.

 

Le mani di Selim strinsero per l’ultima volta il viso di Dago e lentamente si abbassarono prive di vita. Dago piangeva, le sue lacrime erano quelle che non aveva potuto versare per la morte del suo vero padre. Aveva trovato conforto e aiuto, ma ora Selim se ne era andato. Dago era di nuovo solo. Barbarossa, il terrore dei mari, il padrone del mediterraneo, ammiraglio del sultano, guardava in silenzio, alla luce rossa dell’alba.

 

“Lasciate che il cristiano seppellisca il suo amico e curatelo. Poi lo manderete su una galera come rematore. Ah, dimenticavo. Usate lo stesso trattamento per i guardiani. Ma a loro, prima, siano mozzate le orecchie. Che paghino per la loro incapacità!”

 

Prima di andarsene, si tolse il mantello e lo consegnò quella figura inginocchiata.

 

“Prendi, schiavo. Avvolgici il tuo amico, che non scenda nudo nella tomba. E’ la migliore seta di Baghdad.”

 

 

Poi diede un lieve colpo di redini e si allontanò. Barbarossa il potente, temuto, l’invidiato. Nessuno può immaginare che in questo momento sta invidiando un povero, vecchio schiavo morto.

Dago avvolse il corpo esanime di Selim nel pregiato mantello e pianse. Il sole era ormai alto, quando Dago venne ricondotto alle prigioni, prima di essere assegnato alle galere come rematore.

 

Written by dago64

September 11, 2011 at 4:08 pm

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Il Rinnegato – Prologo e I capitolo definitivi

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Prologo

Questa è la storia di un uomo, un veneziano di nobile famiglia che poi, suo malgrado, fu costretto a vagare per tutta l’Europa del XVI secolo alla ricerca di se stesso e di coloro che gli avevano rubato la vita. In quegli anni il destino della civiltà occidentale era incerto, dato che i due più grandi e potenti imperi del periodo si contendevano il dominio. Da una parte l’impero Ottomano, con base a Costantinopoli, era all’apice della sua gloria e delle sue ambizioni espansionistiche. Era governato da una delle figure più affascinanti del tempo, Solimano il Magnifico, il cui impero andava dal fiume Tigri ad oriente fino alle coste dell’Algeria, e si estendeva fino alla penisola balcanica e alle pianura ungherese. Nell’Europa centrale, questo colosso fronteggiava un impero cristiano ugualmente grande e potente. L’impero degli Asburgo si estendeva dalla Danimarca e Olanda al Nord, Austria ad est, alla Spagna e oltre, fino al nuovo mondo. Questo vasto dominio cristiano era guidato da un imperatore giovane, dinamico e profondamente devoto alla chiesa di Roma: Carlo V. Sia Solimano che Carlo si consideravano difensori delle loro religioni e si ergevano contro l’infedele come se avessero ricevuto ordine dall’Onnipotente. Molte furono le occasioni di misurarsi per i due imperatori. L’Europa e il mare Mediterraneo furono teatro di duri scontri, che mai determinarono un sicuro vincitore. Un epico duello in cui un veneziano si ritrovò protagonista. Partecipante attivo nel confronto fra due religioni, due culture estremamente diverse, due civiltà che conobbe profondamente e che imparò a rispettare, malgrado le contraddizioni interne che esse presentavano. Un uomo che, seguendo il suo destino, determinò involontariamente quello di due grandi imperi. Un personaggio misterioso, non citato nelle fonti storiografiche, che conobbe le fortune e le disgrazie dei grandi del Rinascimento.

I capitolo – Il complotto

Venezia. Maggio del 1519. La tregua con l’impero di Carlo V aveva sancito un periodo di relativa tranquillità per la Serenissima. L’imperatore e Francesco I di Francia si contendevano l’Italia settentrionale. La repubblica veneta temporeggiava, considerando anche la minaccia dei pirati del Barbarossa, al soldo di Solimano il magnifico. Non si dormiva tranquilli nei sontuosi palazzi del potere veneziano. Nell’ombra sorgevano complotti e strane alleanze fra chi bramava più ricchezze e gli inviati dei monarchi stranieri. Venezia non era un posto sicuro e tutti ben presto se ne sarebbero accorti.

Mezzanotte. Una moltitudine di nuvole, parzialmente illuminate dai raggi della luna, copriva l’orizzonte. La luna sembrava galleggiare attraverso di esse, come una regina che cammina con passo lieve, mentre il suo splendore era riflesso in ogni onda del mare Adriatico. La città era immersa nel silenzio. L’acqua della laguna era increspata dalla brezza notturna che soffiava gentilmente attraverso le colonnate di San Marco. La basilica, imponente e spettrale come non mai, era testimone silenziosa degli incontri notturni. Il silenzio che avvolgeva Venezia fu rotto dallo sciabordare di un remo.

Avvolta della nebbia notturna una gondola avanzava lungo il canale. Un uomo incappucciato e inquietante si ergeva a prua, a poppa il rematore, che al cenno dell’incappucciato accostò l’imbarcazione all’altezza di un piccolo porticciolo. Illuminato dalle luci fioche provenienti dalle finestre dalla duplice arcata che si affacciavano sul canale, l’uomo misterioso scese dalla gondola e salì i quattro gradini che lo condussero davanti al portone di uno dei tanti palazzi eleganti di Venezia. Sul petto appesa una collana, portava una preziosa daga. Indossata come ornamento, ma terribile strumento di morte. Ad attenderlo sul portone c’era un servitore con una torcia.

“Benvenuto, nobile Caravello. Gli altri ospiti vi stanno aspettando.”

L’uomo si tolse il mantello. Vestito elegantemente, statura media alto, di corporatura snella, capelli corvini e lunghi fino a sfiorargli le spalle. Aveva un viso di colore pallido, quasi emaciato. Un naso aquilino, mento sporgente e due grandi  occhi neri sormontati da folte ciglia davano al suo sguardo qualche cosa di minaccioso, inquietante. Luigi Caravello percorse un ampio porticato che si apriva su un vestibolo da dove partiva una scalinata fiancheggiata da dei stanzoni adibiti a magazzini. Con passo deciso il nobile salì le scale di marmo e raggiunse il primo piano del palazzo, dove si trovava il gran salone con ampie finestre che si affacciavano direttamente sul Canal Grande e da cui penetrava la fredda luce della luna. C’erano due uomini a riceverlo, eleganti e silenziosi. Uno dei due, con una benda nera a coprire un occhio, lo salutò.

” Temevo che non arrivassi, ci sono tanti pericoli in questi periodi incerti.”

L’uomo con un occhio solo indossava, sopra la larga veste, un mantello nero con le maniche tagliate da cui uscivano gli sbuffi della camicia. Un collare di cuoio con rubini e smeraldi rimarcava il suo alto lignaggio.

“ Caro Procuratore,” rispose Caravello con sarcasmo, “il pericolo è il sale della mia vita. La giusta dose è gustosissima….. ma…… non vedo il nostro buon amico Kalandrakis.”

“Arriverà a breve. Lui non ama il sale del pericolo, neppure in giusta dose. Il suo mondo è fatto di oro e di lettere di credito. Tutto ciò che non è finanza lo spaventa.”, non è un uomo d’azione. Ci sei tu per i lavori sporchi.” Rimarcò il procuratore accarezzandosi la lunga barba.

“ E’ un peccato doversi servire delle jene per far trionfare i leoni! Esclamò il terzo dei presenti con il capo contornato da un tipico turbante turco di colore rosso. A giudicare dai suoi indumenti doveva essere un nobile turco di prestigio. Indossava una tipica camicia turca celeste, pantaloni a sacco bianchi e fascia gialla alla vita.

“ Sarebbe un peccato peggiore se i leoni perdessero. Non credi, Ahmed Bey?”

Un uomo di corporatura massiccia, folta barba nera e viso rotondetto con un copricapo tipicamente orientale spuntò dalla penombra. Una larga veste bianca con una tunica nera coprivano il suo corpo grasso.

“ Ah, come al solito, caro Kalandrakis, spunti dall’ombra. E’ chiaro, non puoi lottare contro la tua natura!”.

I due si scambiarono uno sguardo di insofferenza, ma a richiamarli all’ordine la voce profonda e autoritaria del procuratore.

“Vi prego, amici, non sprechiamo tempo in dispute inutili. Abbiamo molto da rischiare e molto da perdere. Accomodatevi.”

Il lugubre quartetto si sedette intorno a un tavolo illuminato solo dalla fioca luce lunare proveniente dalle finestre. Una statua, immobile e silente, dominava la sala. Il procuratore prese la parola e prese in braccio un grosso gatto grigio, dal muso diabolico e famelico.

“Tu, Kostas Kalandrakis, puoi perdere le tue banche. Hai ammassato ricchezze in tutta Europa, ma, attenzione, tutto vacilla, tutto è messo in discussione. E non di meno rischi anche tu, Ahmed Bey. Solimano confida in te per impedire l’alleanza fra l’imperatore Carlo V e Venezia. Certo, finora hai lavorato bene e grazie ai tuoi servigi, Solimano ti ha coperto di fama e ricchezza. Bada bene, se il nostro piano fallisce, ti attende la mannaia a Costantinopoli. Ma se con il vostro aiuto diventerò doge, le vostre fortune si moltiplicheranno. Se sarete distrutti, allora lo sarò pure io. I nostri destini sono uniti per sempre. Quanto a te, mio caro Caravello, oltre all’oro che prendi dal sultano, potresti perdere anche la tua amata, Ortensia Morosini, la donna che per te vale di più della tua stessa vita. Tutti noi siamo ora in pericolo a causa di un solo uomo. Lui o noi. Dovremo distruggerlo o sarà lui a distruggere noi. Lo conosciamo tutti questo uomo: Dandolo, il maledetto Domenico Dandolo. Preparatevi, l’ora della verità è giunta.”

I quattro uomini sinistri si scambiarono un cenno d’intesa e senza aggiungere altro, si allontanarono. Il gatto si allontanò dalla sala e si perse nell’oscurità, miagolando compiaciuto. Alea iacta est, avrebbero detto i romani.

Non molto distante dal luogo di quel complotto sanguinario , si trovava la residenza dei Dandolo che dominava la riva degli Schiavoni, l’approdo dei mercanti provenienti dalla Dalmazia che portavano e vendevano carni e pesci salati. Era uno dei palazzi più belli della Serenissima. La sua facciata era caratterizzata da dei grandi finestroni centrali sormontati da arcate gotiche che illuminavamo un lussuoso salone al primo piano.

I Dandolo erano una delle casate più antiche e illustri a Venezia. Ricche e rispettate, anche se oscurate nel prestigio dalle nuove famiglie emergenti della Serenissima. Domenico era un fedelissimo del doge e le sue ricchezze provenivano dal commercio del sale pugliese, dalle spezie d’Egitto e dalla conchiniglia per colorare proveniente da Corfù. Un vero uomo d’affari che aveva anche aperto una filiale del banco dei Medici. Un fatto che lo aveva reso immensamente ricco. Il vecchio Dandolo era sempre vigile, sapeva che la sua fortuna poteva essere fonte d’invidia. Troppe serpi strisciavano a Venezia. Non era rimasto a guardare. Sapeva il fatto suo e aveva cominciato ad indagare su quelle voci insistenti di un interesse straniero alle sue ricchezze. Persona onesta e retta, non accettava bassi compromessi. Non era uno speculatore, ed era quindi odiato da altri importanti uomini d’affari europei e del vicino oriente.

Domenico Dandolo preferiva curare i suoi affari in una stanza attigua al salone centrale della sua residenza. Il suo studio, arredato senza sfarzo, era illuminato solo dalla fioca luce di qualche candela. Quella sera era piuttosto umido e Domenico indossava un pregiato mantello rifinito di pelliccia, ma non era solo l’umidità e il freddo che lo disturbavano. Il nobile leggeva con sguardo corrucciato i documenti sparsi sul suo scrittoio. Il viso rivelava sorpresa e indignazione. E provava una stanchezza, una stanchezza che prendeva le ossa, che gelava il sangue. In bocca, l’amaro di una verità prima solo sospettata e ora, con quelle carte a fare da testimone, provata. Il silenzio della riflessione fu interrotto dal cigolio della porta. Una giovane dama entrò nello studio e posò la mano sulla spalla del nobile.

“Avete un’espressione strana, padre. Non state bene?”

“E come potrei stare bene, Fiammetta? Venezia lotta su tutti i fronti per sopravvivere. La repubblica è circondata da nemici. Guarda questi documenti. Sono le prove del più miserabile tradimento contro la nostra città. Due uomini stanno cospirando con il turco Solimano. Uno di loro è addirittura veneziano.”

“ Come può essere, risponde preoccupata la donna? Chi?”

“Luigi Caravello, mia cara.”

“ No, non può essere. E’ nostro amico di lunga data. Il compagno preferito di Marco. Non ci credo. Sei sicuro? E cosa intendi fare?”

Fiammetta aveva ancora uno sguardo innocente e non era pronta ad affrontare i pericoli del mondo. Gentile e discreta, era amata da tutti. Non vestiva come voleva la moda veneziana dell’epoca, molto audace e provocatrice. Era una bellissima giovane donna, ma non amava mettere in mostra le sue grazie, come facevano altre ragazze della sua età. Nutriva per il fratello maggiore amore e ammirazione. Sapeva della profonda amicizia fra Marco e Luigi e in qualche modo era turbata e non voleva credere alle confessioni del padre. Ma sapeva anche che il padre non parlava mai a sproposito.

“ Andrò da Gritti, capo del consiglio dei dieci, e gli consegnerò i documenti perchè li faccia pervenire al doge. E come prova inconfutabile, so della presenza a Venezia dell’inviato turco del sultano, Ahmed Bey. Il doge dovrà prendere atto di questa slealtà e prendere i dovuti provvedimenti.”

“ Va bene, padre, è giusto quanto dici. Ma Marco, che dirà?”

“ Non lo so, ma in un modo o nell’altro, dovrà venire a saperlo.”

A Palazzo Morosini, Ortensia, la giovane marchesina padrone di casa appena ventunenne, era felice e preoccupata allo stesso tempo. In grembo portava il figlio dell’amato Marco Dandolo, ma voleva assicurarsi che l’uomo la sposasse prima di confessargli il segreto. Non si fidava del bel giovane, ammirabile per qualità tanto inaffidabile per le promesse. Quella sera aveva organizzato un incontro nella sua residenza. Marco venne accompagnato dall’inseparabile amico Luigi, guascone quanto lui, anche se a Ortensia non era mai piaciuto. C’era qualche cosa nel suo volto che l’adombrava, e qualche volta ne rimaneva spaventata. Ma per amore di Marco, l’aveva accettato fra i suoi più cari amici. Ortensia attese i due nella terrazza , davanti al giardino interno, un luogo piacevole per l’incontro di tre giovani nobili da cui si poteva ammirare il fantastico panorama offerto da Venezia. Ortensia, nonostante la sua giovane età, era già donna, aveva un corpo scolpito e le sue curve femminili erano perfettamente messe in risalto da uno splendido abito di seta bianca. Il suo seno era contenuto a fatica dall’abito e un velo nascondeva a fatica i capezzoli e grazie a dio non si vedeva ancora la pancia crescere. Un collo di merletto sottolineava la bellezza del suo volto sormontato dai capelli rosso tiziano, portati secondo la moda all’epoca. Le orecchie erano adornate da preziosi orecchini orientali.

“Buonasera, mia amata Ortensia,” disse Marco, compiaciuto alla vista della bella fidanzata.

Ma le parole che Ortensia usò non furono certamente di gioia. Anzi. Lo splendido viso fu attraversato da una smorfia seccata. Non perse tempo la giovane e passò subito all’attacco.

“ Ma-tri-mo-nio. Hai capito, buffone? O non sai di che cosa parlo?”

Marco rimase per un attimo senza parole. Era un giovane aitante, moro, vestito elegantemente con una raffinata camicia di lino bianca, farsetto nero senza maniche e calzabraghe blu, con la daga appesa alla cintura di argento, portata più per vezzo che per utilità. Anche se l’uomo era considerato uno dei spadaccini più temuti di Venezia.

Il giovane Dandolo si chinò verso la giovane donna e con fare gentile le parlò.

“ Ortensia, amore mio, sogno mio, vita mia, morte mia, ascolta. Sto per avere un posto nella flotta. Combatterò agli ordini del nostro glorioso ammiraglio. E’ difficile per me pensare al matrimonio, anche se, credimi, lo desidero con tutto il cuore.”

“Lo so, lo so, rispose Ortensia con uno sguardo di rassegnazione. Contro i Turchi, contro i pirati di Barbarossa, chissà contro chi altri. Ma io? Quali sono i tuoi progetti per me?”

Marco sorrise. Di un sorriso sincero e onesto. Il suo sguardo illuminato metteva ancora di più in mostra la sua bellezza. Capelli mossi e neri, lineamenti del viso duri, ma allo stesso tempo affascinanti. I suoi occhi blu cobalto raccontavano di un giovane sicuro di se, ma al tempo stesso attento a non ferire gli altri. Era innamorato della sua Ortensia. Molto. Certo, non lo dava a vedere, era pur sempre una delle prede più ambite di Venezia, ma aveva già deciso di sposare la dama più bella della città. Marco amava la vita e gli piaceva prendere e prendersi in giro. Non si curava dei potenti. Aveva l’abilità e il carattere di tener testa a chiunque. Ortensia era più riservata, ma quel giovane tanto spavaldo l’aveva affascinata fin dal loro primo incontro al gran ballo di Carnevale e non si erano più lasciati. Ora erano vicini al grande passo, ma doveva essere lui a fare una proposta seria.

“ Conosci le mie intenzioni, vita mia, amarti notte e giorno. Finchè diverrai una deliziosa vecchietta!” E si lasciò andare a una fragorosa risata.

“ Scordatelo!” Esclamò stizzita Ortensia. “ Io non aspetterò di essere una deliziosa vecchietta per sposarmi. Quindi scegli o i turchi e i pirati o me!”

Marco ammutolì, stordito dalla veemenza dell’amata.

“Suvvia, Ortensia, non lo sgridate. Se non vi sposa lui, lo farò io. Quale migliore punizione per le sue esitazioni?”

“ Zitto voi, Luigi. Mi basta uno svergognato per volta.”

Ginetta, ormai irritata e delusa, si allontanò, fra lo sguardo attonito dei due giovani.

“Mmm, la tua bella fidanzata è decisa, vero Marco?”

“ Si. Hai ragione Luigi. E ciò rende il mio futuro molto cupo. Temo che stavolta non troverò scuse per salvarmi dal matrimonio.”

“ In questo caso, caro Marco, urgono provvedimenti. Non lasciamo per domani il vino che possiamo bere oggi.”

“ Ah ah ah, hai ragione, Luigi. E nemmeno le ragazze che possiamo baciare. Parole sante. I locali di Venezia ci aspettano. Andiamo, altrimenti non ci rimarrà nulla. I piaceri di Venezia saranno nostri.”

Ridendo e scherzando i due giovani abbandonarono la terrazza e percorsero i lunghi corridoi del palazzo fino alla scalinata di marmo. Scesero al pianterreno e uscirono dal portone secondario dove ad attenderli c’era una gondola.

Marco Dandolo non era particolarmente desideroso di prendere moglie. Era nato nel 1490 e la ricchezza paterna gli aveva permesso di avere un’ottima istruzione. Aveva studiato presso la prestigiosa scuola diplomatica di San Marco e aveva ottenuto brillanti risultati. Il padre non voleva che diventasse un topo di biblioteca e ne affidò l’addestramento militare a un celebre cavaliere che aveva partecipato alla disfida di Barletta. Si rivelò un ottimo allievo. Svelto di mente e di braccio, abile spadaccino e cavallerizzo. Questa indole da combattente lo portò ben presto lontano dalla famiglia dagli agi di Venezia. Aveva partecipato a molte battaglie fra cui Agnadello. Malgrado i continui dissidi con il padre, che lo voleva erede della sua fortuna, concluse i suoi studi di Giurisprudenza. Con la lega di Cambrai si guadagnò il titolo di capitano d’armata. La bellissima Ortensia era la sua fidanzata da tempo e aveva deciso di mettere la testa a posto per lei. Ma il suo spirito indomito era costantemente attratto dalle vicende belliche che affliggevano l’intera Europa agli inizi del XVI secolo. Desiderava pure un figlio, ma l’amore per l’avventura era la momento più grande. Si profilava un grosso problema all’orizzonte. E non sapeva proprio come uscirne. Forse se avesse saputo della gravidanza di Ortensia, non avrebbe esitato. Ma era proprio questo che la nobildonna desiderava vedere. Conosceva bene il suo Marco e non voleva costringerlo a condurre una vita che non voleva. La responsabilità di un figlio l’avrebbe sicuramente frenato.

Nel frattempo il vecchio Dandolo non perse tempo e, dopo aver congedato la figlia Fiammetta, si recò a palazzo Gritti. La costruzione di affacciava come tutti i palazzi più importanti di Venezia sul Canal Grande. Un palazzo con i tipici tre piani che distinguevano le residenze del tempo. Sette finestre centrali con arco a tutto sesto dominavano la facciata. Lungo tutti i balconcini fiori e piante. Ad attendere il mercante il servo Giannetto che mostrò uno strano sorriso beffardo.

“Ah, buonasera signor Dandolo, entrate. Il procuratore vi aspetta.”

“ Il procuratore conosce il motivo della mia visita, Giannetto?”

“ Si ed è molto inquieto. Mi ha detto di farvi passare subito.”

Lo studio del procuratore era maestoso, tappezzato di costose stoffe e arredato con mobili di alta fattura. Ben diverso da quello di Domenico. Andrea Gritti non era comunque un uomo comune. Fin da giovanissimo venne condotto dal nonno in varie ambascerie in Inghilterra, Francia e nelle Spagne. Si era anche trasferito a Costantinopoli dove riuscì a stringere rapporti commerciali con il sultano Bayezid e a diventare punto di riferimento per tutta la comunità dei mercanti europei.
Si instaurò fra Gritti e la Sublime Porta un legame così stretto che sarebbe durato per tutta la sua vita. Andrea al ritorno in patria ricoprì varie cariche senatorie e diplomatiche, ma il suo incarico più importante e incisivo fu sicuramente quella di capitano generale. Infatti riconquistò Padova e i territori perduti dopo la sconfitta di Agnadello. Nel 1509 venne eletto alla Procuratoria di San Marco. Questa nomina, appannaggio di un numero ristretto di patrizi, era emblematica di una carriera politica di particolare prestigio. Una persona di spessore, dunque. Un uomo di cui ci si poteva fidare secondo quello che pensava Domenico.

“Buona sera, nobile Dandolo.”

“ Porgo i miei saluti, procuratore. Purtroppo sono messaggero di funeste notizie. Leggete qui, questi sono documenti scottanti e vergognosi per la Serenissima.”

Gritti lesse le carte accuratamente. Alla fine sollevò il suo sguardo verso Dandolo.

“Non credo ai miei occhi, Caravello e Kalandrakis. Due nobili di alto lignaggio. Sembra incredibile. Sai se ci sono altri implicati?”

“ Si, procuratore. Pare ci sia un nobile molto molto importante, ma non ho scoperto chi. Mi metterò subito all’opera per stanarlo. Dovrei riuscirci in breve tempo.”

“ Capisco.” mormorò Gritti. L’uomo riflettè qualche minuto e si rivolse di nuovo a Dandolo.

“Lasciate qui questo rapporto. Domani sarà mia cura consegnarlo nelle mani del doge. Vi ringrazio, Dandolo, per la fedeltà dimostrata.”

Lo sguardo di Andrea Gritti accompagnò Domenico Dandolo fino al portone d’ingresso. E rimase immobile a pensare. Qualche minuto e si scosse.

“Giannetto! Dove sei?”

“Eccomi signore.”

“ Trovami Salvatore, subito. Ho un incarico speciale per lui.”

“ Si, signore, me ne occupo subito.”

Giannetto a passo svelto uscì dallo studio e corse a compiere la sua missione. Su Venezia si stava per abbattere la tragedia e il rumore cupo della campane lasciava presagire solo ore funeste.

L’indomani, con il sole già alto, rauco per i canti, sazio di vino, Marco fece ritorno a casa. Aveva trascorso una notte di bagordi con l’amico fraterno. Il gondoliere lo aiutò a salire gli scalini del suo palazzo e barcollante, ma soddisfatto, il giovane salutò la vita. Era felice. Una felicità da fare invidia.

“Cosa posso volere di più? Una sposa meravigliosa, un amico inestimabile, una carriera brillante. Non è un sogno, è realtà e grazie Dio per avermi concesso tanta grazia!”

Come sempre, quasi in un gesto rituale, sfiorò il vecchio scudo di pietra appeso a fianco del portone. Lo stemma bianco e rosso dei Dandolo, simbolo della loro fama e ricchezza. La sua bandiera, scolpita nel suo cuore.

“Lunga vita ai Dandolo.” gridò il giovane.

Ad accoglierlo nel salone la madre. Una bella donna di mezza età, vestita con un abito rosso damascato. Al collo indossava un prezioso gioiello, regalo dell’adorato marito. Le mani sui fianchi non lasciavano presagire nulla di positivo per Marco.

“Ah, sei qui? Hai finito con gli stravizi? Dovresti vergognarti!”

“Cara Madre! Niente mi rallegra più di una calda accoglienza. Dammi un bacio.”

E l’abbracciò, con una genuina allegria che la fece sorridere e che la rese la madre più felice del mondo. Nella stanza adiacente , sedevano il padre e la sorella che parlottavano fra di loro.

“Glielo direte, padre?”

“ Non posso. Luigi è come un fratello per lui. No. Forse sono vile, ma non riesco a dirglielo. Gli ho scritto una lettera che potrà leggere più tardi.”

Marco si avvicinò ai due. “Sorellina, già alzata? Sei bella come il sole, stai diventando grande e presto dovrò litigare con i tuoi pretendenti! E voi, padre, potete cominciare a brontolare.”

“ No, Marco, oggi no. Dopotutto anch’io da giovane ho avuto la mia parte di notti brave.”

Il vecchio Dandolo prese un plico sigillato dalla tasca del suo mantello e lo diede al figlio.

“Prendi, ti ho scritto una cosa molto importante e voglio che tu la legga appena sarai solo. Lo farai?”

“ Lo prometto, padre. Diavolo. Ho veramente sonno. E puzzo come pochi. Mi ritiro nella mia stanza.”

Marco si allontanò e salì la scalinata che conduceva alle camere da letto del piano superiore.

“Leggerò la lettera più tardi, non mi reggo in piedi.”

Con il sole alto, Marco sprofondò nel suo letto. Nella mano la missiva del padre, che lentamente scivolò fra le sue dita a terra.

Venezia era invece ben sveglia anche se il primo cittadino non brillava per capacità. Il Doge Loredan aveva avuto un periodo veramente difficile dal punto di vista politico. La lega di Cambrai non gli dava pace, anche se la guerra poteva ritenersi conclusa, e la tregua con Solimano non lo lasciava tranquillo. Il doge, che forse pensava di doversi godere gli ultimi anni di vita piuttosto che dedicarli all’amministrazione, aveva favorito una certa rilassatezza di costumi nella società veneziana. Vi furono molti scandali finanziari e molte cariche pubbliche vennero acquistate piuttosto che ottenute per merito. In questo periodo il doge comprava perfino cariche per figli e parenti, usando al massimo la sua influenza. La serenissima era allo sbando. Un doge così preso dai suoi affari clientelari , non poteva essere in grado di amministrare la repubblica. Molti nobili vedevano nella sua debolezza, la possibilità di instaurare nuovi equilibri, nuovi poteri. Gritti era fra questi. Il complotto contro il Dandolo avrebbe eliminato un pericoloso avversario e la strada verso la carica di doge sarebbe stata praticamente libera. Bisognava fare presto però. Non c’era tempo da perdere e Gritti convocò per la seconda gli altri tre compari lontano questa volta da occhi indiscreti. Non voleva farsi soprattutto vedere in giro con il turco e il greco, Ahmed e Kalandrakis, qualcuno avrebbe potuto farsi domande strane. Il luogo del rinnovato incontro era molto lontano dai palazzi della nobiltà che si affacciavano sul Canal Grande. Sotto un piccolo ponte che univa le tante calli di Venezia. Raggiunsero il luogo a piedi, camminando furtivi per la città. Ormai l’ora dell’azione era imminente e non bisognava fare errori. L’acqua del canale aveva un odore acre, di putrefazione. I quattro uomini , avvolti nei loro mantelli oscuri, incappucciati, tramavano nella penombra.

“ Allora, tutto deciso? Esclamò uno dei tre.

“Si, dovrà essere stanotte. Salvatore, il miglior falsario di Venezia ha preparato le lettere, vere opere d’arte. Ma non voglio correre rischi inutili. Mi dicono che il giovane Marco Dandolo sia un abile spadaccino.”

“ In effetti, è il migliore a Venezia, procuratore. Ma la mia daga penserà a tutto.”

La lama dell’arma illuminò per un attimo il viso pieno di furore di Luigi. Gli occhi rosso sangue, quasi a presagire l’imminente delitto. Uno sguardo demoniaco, non umano. Luigi nutriva una profonda invidia per Marco e non vedeva l’ora di eliminarlo.

“Mi occuperò io di lui.”

Tolto di mezzo Marco, non ci sarebbero stati problemi per dei sicari prezzolati ad uccidere gli altri componenti della famiglia Dandolo. Luigi era il braccio armato del complotto. Gritti lo apprezzava per la sua fermezza. Probabilmente Luigi avrebbe eliminato Marco senza contropartita, tanto forte era il suo odio. Ortensia era la sua dannazione. L’amava da tempo, ma la donna aveva scelto Marco. Non aveva occhi che per lui. Con Marco morto, le ricchezze dei Dandolo da amministrare, Ortensia sarebbe stata sua. Con in testa questi pensieri, Luigi si accomiatò dai complici e si diresse verso palazzo Dandolo. L’ora dell’azione era scoccata. Era sera quando Luigi giunse a casa di Marco. Il giovane era ancora nelle braccia di Orfeo. Luigi non lo fece chiamare, ma si recò di persona nella sua stanza. Entrò furtivamente e gli rovesciò una brocca d’acqua gelata in testa.

“Sveglia, marmotta. Devo dirti cose importanti.”

“ Maledizione,” rispose Marco imprecando ancora mezzo addormentato, “ Ti ucciderò!”

“ Non essere così melodrammatico, mio bel signorino. Alzati e vieni con me, faremo un giro in gondola. Con la luna piena dobbiamo fare una serenata a tutte le ragazze di Venezia.”

“ Ehi,” esclama Marco, ma tu non ti stanchi mai? Va bene, dammi qualche minuto per sistemarmi e risvegliarmi completamente.”

“ Ti aspetto giù. Non farmi aspettare troppo.”

Marco si preparò ad uscire, si cambiò d’abito e mentre uscì dalla stanza, scorse la lettera del padre.

“Accidenti la lettera, l’avevo scordata. La porterò con me e la leggerò alla prima occasione. Ora mi attende una fantastica nottata.”

Marco salutò la sua famiglia senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe rivisti vivi. Salì con Luigi sull’imbarcazione che li avrebbe portati fino in Istria, a scoprire le meraviglie di quella costa. Due fidati della famiglia Caravello conducevano la gondola. All’oscuro di tutto, il giovane Dandolo sprofondò nei cuscini della grande gondola, scherzando e ridendo con l’amico. A osservare la loro partenza due loschi figuri, nascosti in un angolo buio non lontano dal palazzo.

“Ecco,” disse uno dei due, “se ne vanno”.

“Perfetto,” rispose l’altro.” Ora possiamo agire indisturbati. Alle undici è l’ora stabilita. Ricorda a tutti le istruzioni.”

L’uomo si allontanò, lasciando l’altro a vigilare.

Le campane di San Marco suonarono le undici. Sei, sette, otto, nove, dieci rintocchi. All’undicesimo un gruppo di uomini incappucciati con dei lunghi mantelli neri bussò con fragore al portone di palazzo Dandolo. L’ora era molto tarda. Poche persone si aggiravano a quell’ora per Venezia. Ci volle del tempo prima che un servo venne ad aprire. Il pesante portone si aprì con uno scricchiolio lugubre. Una torcia illuminò l’atrio.

“Buonasera signori, che volete? E’ piuttosto tardi.” Chiese il servo.

Non fece in tempo a finire la frase, che dal gruppo una lama lo trapassò da parte a parte. Il servitore emise solo un gemito e cadde a terra, mortalmente ferito. Un violento calcio lo spostò da parte.

“Togliti di mezzo e lasciaci passare.”

Il gruppo di sicari percorse velocemente il piano terra del palazzo, dove si trovavano i magazzini dei Dandolo e salì al primo piano. La confusione fece accorrere Domenico, che aveva l’abitudine di rimanere sveglio fino a tardi nel suo studio a fare conti e analizzare documenti. Alla vista di quel gruppo di uomini in nero, minacciosi, si mise sulla difensiva, ma non aveva alcuna arma con se. Non era mai stato un combattente.

“Ma che succede? Che cosa sono queste grida? Ehi, voi cosa volete?”

Le cinque figure nere lo circondarono in un attimo e gridarono all’unisono.

“La tua morte!”

Cinque lame affilate lo infilzarono senza pietà e Domenico Dandolo cadde a terra in un lago di sangue. Non ci fu scampo per nessuno. Gli altri servi erano disarmati e non ci volle molto ad eliminarli. Il gruppo di selvaggi cominciò a distruggere tutto quanto incontravano: cristalli, statue, mobili, vasi. I loro facevano tremare l’intero palazzo. Svegliate dal trambusto, la madre di Marco, Costanza, e Fiammetta uscirono dalle loro camere da letto del piano superiore. Costanza si appoggiò al parapetto e urlò.

“Fermi, miserabili. Cosa significa tutto questo?”

Ci fu un attimo di esitazione fra gli assalitori. Avevano ricevuto degli ordini precisi, ma non era facile uccidere una donna inerme. Ma non durò molto. Uno degli assassini imbracciò una balestra e nell’aria si sentì un sibilo, leggero, mortale. La pesante freccia colpì in pieno petto la donna che cadde pesantemente lungo la scalinata, priva di vita. Fiammetta era paralizzata dal terrore. Non capiva quello che stava succedendo. Vide la madre distesa lungo le scale e corse a soccorrerla. Si chinò su di lei, ma Costanza non dava già più segni di vita. Perché quella crudeltà? Cosa avevamo fatto di male per meritare quella selvaggia punizione? Guardò gli assassini e gridò.

“Cosa avete fatto? Perché? Madre! Noooo!!!!!!!”

Pochi passi e il lugubre gruppo fu intorno a lei. Gli ordini erano di non risparmiare nessuno, tutti dovevano perire. Il tragico pianto di Fiammetta venne soffocato dalle spade dei malfattori che si accanirono contro la ragazza. Dieci, venti, cento colpi mortali vennero inferti su quel povero corpo ormai senza vita. In preda a una cieca follia assassina, i cinque uomini conclusero la loro opera criminale dando alle fiamme l’intera dimora. Lo stemma di famiglia bianco e rosso fu distrutto. Nessuna traccia dei Dandolo doveva rimanere dopo quella notte assassina. Mentre si allontanavano non visti fra le calli di Venezia, palazzo Dandolo bruciava.

Ormai lontano Marco, ignaro di tutto, si godeva la notte della laguna. Era fresco, c’era umidità, ma tutto sommato l’aria era gradevole. I due amici sedevano sui comodi cuscini della loro gondola, si godevano il momento accompagnati dal suono di un mandolino, usato con maestria da uno dei due marinai che li accompagnavano. Una musica celestiale sembrava voler raggiungere le stelle. Marco era disteso e senza pensieri.

“ Splendido, un momento così dovrebbe essere eterno.”

“ Hai ragione,” gli rispose Luigi. “Godiamocela.”

Marco si toccò la sua tasca e sentì uno strano scricchiolio di pergamena.

“Accidenti, la lettera di mio padre. Devi scusarmi un istante, Luigi. Ho promesso a mio padre di leggere questa lettera al più presto.”

“ E leggila,” rispose bruscamente il nobile Caravello.

Improvvisamente l’aria si fece gelida, il suono del mandolino sembrò un grido agghiacciante di un fantasma. Marco finì di leggere e alzò il capo stupito verso Luigi.

“Non capisco,” gli disse. “Mio padre parla di un complotto in cui sarebbero implicati il banchiere Kalandrakis, un certo Ahmed Bey e un nobile veneziano ancora sconosciuto. E in fondo alla lista c’è anche il tuo nome, Luigi.”

“ Io?” Rispose l’amico meravigliato. “Guardami Marco. Mi conosci da sempre. Mi credi capace di questo? Tradire chi amo?”

Marco si voltò a osservare l’acqua e riflettè.

“E’ tutto incredibile. Anche la storia del nobile di cui non si conosce il nome.”

Alle sue spalle, Luigi, non visto, estrasse la daga che portava appesa al collo.

“Io lo conosco. E’ il procuratore Gritti. Ecco l’unico nome che tuo padre non ha scoperto. E per questo sarà già morto come tutta la tua famiglia. E come te!”

Marco non fece in tempo a voltarsi, che venne raggiunto alla schiena da un fendente dell’amico. Un dolore sconosciuto e agghiacciante lo fece barcollare. Uno dei due gondolieri lo spinse in acqua con uno spintone veloce. Un tonfo pesante e Marco si ritrovò fra le onde nere della laguna. Il suo corpo ancora galleggiava, privo di vita, mentre la gondola era già lontana. La daga nella sua schiena sembrava una croce. Uno dei due marinai si rivolse a Luigi.

“ Tutto fatto, signore. I pesci banchetteranno col suo nemico.”

“ Si, hai ragione. Ma anche morendo mi ha tolto qualche cosa. Non ho potuto estrarre la mia daga. Bene, lo accompagnerà in eterno!”

Luigi vide il corpo di Marco sparire lentamente all’orizzonte. Finalmente si era liberato di quel bastardo. Aveva pagato tutti i suoi debiti. Era giunta la sua ora. Ortensia sarebbe stata presto sua.

Era ancora buio a palazzo Dandolo. Molta gente era accorsa alle grida, ma il gruppo di assassini era riuscito a fuggire senza lasciare traccia. Fra la folla che si ammassava davanti al portone, apparse il doge in veste ufficiale con un drappello di soldati. Il primo cittadino di Venezia entrò nel palazzo. C’era un silenzio assoluto. I corpi della famiglia Dandolo giacevano a terra, affogati nel loro sangue. Quasi irriconoscibili dopo il rogo che aveva bruciato tutto e tutti. Il doge osservava attonito la scena e spezzò il silenzio tombale che si era creato.

“ Che massacro!! Ma perché tanta violenza? Chi può essere stato?”

Anche Gritti era presente. Anzi era stato fra i primi ad accorrere proprio per completare il suo piano. Il doge chiese a lui lumi sull’accaduto, dato che sapeva dell’amicizia fra i Dandolo e i Gritti.

“Avete trovato qualche cosa, Gritti?”

“ Si, eccellenza.” Rispose l’uomo dalla benda nera. “Una cosa incredibile. Lettere dal sultano turco a Dandolo. Solimano si lamentava per non aver ricevuto le informazioni promesse.”

Porse dei documenti al doge. Il falsario assoldato da Gritti aveva fatto bene il suo lavoro. I documenti sembravano autentici Il doge lesse con attenzione e annuì.

“E qual’è la vostra conclusione, procuratore?”

“ E’ evidente che Dandolo era una spia del sultano e che voleva tirarsi indietro, come dimostrano le lettere. Solimano ha così deciso di farlo uccidere.”

Il doge, convinto dalle parole dell’infido Gritti, non perse tempo. Aveva trovato la causa di tanta violenza e voleva subito risolvere il caso. Un’intera famiglia di nobili così in vista sterminata poteva nuocere a Venezia e alla sua immagine. Fece una solenne dichiarazione.

“Non abbiamo scelta. Da oggi il nome di Dandolo sarà simbolo di ignominia. Lo stemma della famiglia verrà distrutto e dimenticato. Questo è un mio ordine, un ordine del doge.”

Alla sue spalle, Gritti, fece un ghigno beffardo. Ora aveva campo libero. Presto nessuno avrebbe potuto toglierli il titolo di Doge. Quell’inetto di Loredan era condannato. Ma per il titolo c’era tempo. Il vecchio doge ormai non aveva più tanto potere. Gritti si era costruito una rete d’amicizie importante e prima di tutto doveva cercare di sottrarre tutte le ricchezze ammassate dei Dandolo. A partire dalla banca che aveva aperto. Il doge lo incaricò di occuparsi del palazzo martoriato dei Dandolo. Era una delle più belle costruzioni di Venezia e andava sistemato. Luigi aveva chiesto come ricompensa proprio quella dimora, dove era sempre stato accolto con reverenza e gioia. Là sarebbe andato ad abitare. Era l’alba quando Luigi rientrò a casa. Ora gli era sufficiente aspettare e Gritti lo avrebbe coperto di onori e ricchezze. Marco Dandolo non era più un problema.

Il sole era già alto. La piccola galea avanzava lentamente, verso coste più sicure. Sul ponte l’uomo al comando, armato di frusta e pugnale, osservava quel corpo quasi senza vita sul ponte, che i suoi uomini avevano appena tirato fuori dal mare. Un movimento leggero, quasi impercettibile, ma rivelatore che c’era ancora vita in quel fardello bagnato.

“ Ehi,” gridò l’uomo, “ti sei svegliato, infedele?”

Marco era ancora sanguinante. La schiena gli doleva, le ore trascorse in acqua non erano state di certo piacevoli. Era riuscito a tenersi a galla, nonostante la profonda ferita alla schiena. Quando le forze lo stavano abbandonando e ormai semi svenuto, aveva udito delle voci. Pensava fossero i richiami della morte, ma ora comprendeva che degli uomini misteriosi l’avevano preso a bordo della loro nave. Quella figura imponente che l’aveva ricevuto non aveva però l’aria di un onesto e tranquillo mercante. Sembrava più una specie di bandito. Le molte armi che vedeva in giro non lasciavano presagire nulla di nuovo. Marco, ancora barcollante cercò di alzarsi, senza riuscirvi, rimase sulle su ginocchia di fronte a quel pirata che, bruscamente , gli rivolse la parola.

“Ah, non ricordi molto, vero? Sono Kabir Ben Mahud e comando questa nave. Devi al fatto che avevamo un albero spezzato e navigavamo sottocosta se sei ancora vivo.”

Marco si guardò intorno. Non capiva la lingua usata da quell’uomo. Si trovava su una piccola galea, questo è certo. L’imbarcazione che lo aveva raccolto era snella, lunga circa 40 metri. Non assomigliava a quelle di Venezia e Genova, molto più grandi. Un albero al centro, dotato di una grande vela latina le consentiva una navigazione veloce all’occorrenza, anche se si poteva udire le voci dei rematori provenire dal ponte sottostante. Non era sicuramente veneziano e tantomeno europeo quell’uomo che sembrava il capitano. Marco non era propriamente uomo di mare. Si, aveva navigato, ma doveva ancora completare la sua conoscenza marittima. Dove era finito? Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Kabir comprese che Marco non capiva la sua lingua e usò un veneto stentato, ma comprensibile.

“ Galleggiavi svenuto, aggrappato a un legno con una daga piantata nella schiena. Chi ti odia così tanto, cristiano? Quale grande crimine hai commesso?”

Marco cercò di alzarsi e rispondere.

“Non ricordo, non lo so. In questo momento non so niente. Ma che farai di me?”

“Di te? Ora sei uno schiavo, tutto qui.”

Marco, improvvisamente, acquistò vita e gridò all’indirizzo del turco.

” Schiavo? Io sono Marco Dandolo, cittadino di Venezia!”

Un pesante calcio colpì il giovane sulla mandibola, facendolo cadere a terra.

“ Zitto, cittadino di Venezia. Io sono un capitano di Kheyr-ed-din, il re del mare. E sputo sulla tua città.”

“Kheyr-ed-din? Il pirata?” mormorò Marco. Improvvisamente comprese dove era finito. Una galeotta della flotta dell’uomo più pericoloso del Mediterraneo. Un terribile sanguinario che spediva i suoi uomini a depredare e uccidere le coste di mezza europa a bordo di veloci galee.

“Si,” rispose l’ufficiale. “Quello che voi chiamate Barbarossa. Il padrone del mediterraneo. Pulisciti la bocca quando parli di lui, cane infedele! E dimmi, questa è la daga che avevi nella schiena, bella. Non è certo strumento da contadini. Che storia c’è dietro?”

Marco raccolse le ultime forze.

” E’ una storia mia, un debito mio.”

Improvvisamente tutto gli tornò in mente. Luigi l’aveva pugnalato e si era ritrovato in acqua. La lettera del padre l’aveva informato di quel complotto in atto. Chissà cosa era successo alla sua famiglia. Temeva il peggio, ma ora doveva pensare alla sua di vita. A risvegliarlo dai suoi pensieri, la voce tagliente di Khabir.

“Ehi, tu da adesso in poi non hai nulla. Debiti, crediti. Nulla. Sei solo uno schiavo. Niente. Nulla. Dimentica chi sei stato perchè non rivedrai il tuo paese e la tua gente.” Lo sguardo minaccioso di Khabir raggelò Marco.

“Non sono uno schiavo, pirata, sono Marco Dandolo.”

A queste parole la collera assalì Khabir.

“Non hai ancora capito? Vuol dire che dovrò chiarirti le idee.”

E lasciò partire un colpo di frusta sulla schiena già martoriata di Marco, che crollò pesantemente a terra, senza forze.

“Vedi come è facile piegare la volontà. Non sei niente. Hai una nuova vita. Hmm, hai anche bisogno di un nuovo nome. Lasciami pensare. Si, ti chiamerò Dago secondo la tua lingua. Non puoi avere un nome turco, sei pur sempre uno schiavo cristiano. Mi sembra un nome appropriato. Dopotutto questa daga è stata come una madre per te. Ti ha fatto nascere a nuova vita. Ora non hai più passato.”

Khabir, compiaciuto di aver catturato un nuovo schiavo, ordinò ai suoi due uomini di portare Marco nella stiva. Venezia era ormai lontana. Non esisteva più l’uomo che si chiamava Marco. La stiva era buia, c’era un terribile odore di corpi umani, di escrementi. Nell’oscurità non vedeva nulla, ma poteva udire lamenti e gemiti accompagnati dal tintinnio delle catene. Marco aveva l’orgoglio ferito, era pieno d’odio, nella testa aveva ancora le parole lette nella lettera del padre. Venne incatenato, ma non oppose resistenza. La guardia controllò che le catene fossero ben salde e disse ridendo.

“ Benvenuto nel tuo nuovo mondo, schiavo!”

Uno schiavo. Era dunque questa la sua nuova condizione? Possibile che la vita gli aveva rivolto improvvisamente le spalle? Come sarebbe tornato a Venezia? Nella sua testa risuonava soltanto una parola: vendetta!

Written by dago64

September 5, 2011 at 5:15 pm